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La moglie del poliziotto. Intervista a Philip Gröning
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La moglie del poliziotto. Intervista a Philip Gröning

Vincitore del  Premio Speciale della Giuria alla 70° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, La moglie del poliziotto rivela tutto il cristallino talento di Philip Gröning nello scandagliare l’animo umano scaraventato nell’abisso della violenza più immotivata e odiosa, quella nascosta e omertosa della violenza domestica sulle donne.


Il film è stato presentato in anteprima regionale al cinema AlCorso di Reggio Emilia il 25 novembre 2013 in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne e il successivo incontro nella prestigiosa sala degli Specchi del Teatro Valli di Reggio Emilia con il regista e sceneggiatore Philip Gröning  ha approfondito la curiosità per la realizzazione del film e il tema sulla violenza oggetto di studio.

Alla presenza dell’Ufficio cinema di Reggio Emilia e a rappresentanti dell’associazione Nondasola organizzatrice dell’incontro, Gröning, reduce del grande successo del documentario Il grande silenzio del 2005 ha risposto con grande affabilità e un buon italiano alle domande degli intervenuti, con negli occhi il film ancora caldo. Le domande sono state poste dalla responsabile dell’Ufficio cinema e dal pubblico intervenuto in sala.


D. Come è nato il progetto di La moglie del poliziotto?
R: Avevo in mente il soggetto e avevo scritto un paio di pagine del trattamento ma poi parlando con un’amica italiana che lavora in un centro d’aiuto alle donne vittime di violenza mi sono reso conto che il tema che stavo prendendo in considerazione era molto più vasto della percezione che avevo io di questo problema e che ne avevo una visione stereotipata dal semplice recepire dai mass media le sommarie ricostruzioni delle cronache.


D. Quindi ha cominciato un lavoro di ricerca. Tra Italia e Germania.
R. Si, in realtà in Italia c’è stato solo un contatto con un’ amica, il grosso della ricerca è avvenuto in Germania. Il problema della violenza sulle donne, violenza domestica in questo caso, è purtroppo qualcosa che non è confinato ad una nazione o ad un particolare ceto sociale.


D. Come è avvenuta la ricerca?
R. Facendo domande. Siamo andati nei centri  nei quali trovano accoglienza le donne che hanno subito violenza e abbiamo incominciato ad intervistarle. Queste interviste hanno spazzato via ogni preconcetto e ogni stereotipo che ci eravamo costruiti.
La violenza di cui sono oggetto le donne, da parte del loro compagno di vita che è il tema del mio film, è una violenza soprattutto psicologica. Un progressivo annullamento della personalità, un costante annientamento silenzioso e subdolo. Un crescendo che porta poi alla violenza fisica . L’abbattimento psicologico prima e fisico poi. E’ un certo tipo di comportamento che deriva da un permanere della cultura , arcaica, che vede la donna come oggetto .


D. Qual è la cosa comune che hanno queste storie ?
A. L’isolamento. Quello che mi ha colpito è il progressivo isolamento dalla vita sociale , amici e parenti, delle coppie che hanno questo problema, quello della relazione violenta. Parlo di relazione perché quello che interessava a me non era l’atto di violenza in sé , isolato, causato da un momento di rabbia o di frustrazione che non si ripete più. Ma una relazione sentimentale il cui legame è la violenza. Questo aspetto ha in sé qualcosa di subdolo.
La relazione violenta non è caratterizzata da una violenza continua, ma da parentesi violente in una relazione che in apparenza è normale. Queste parentesi diventano poi sempre più frequenti, immotivate e acute. L’annichilimento psicologico della donna la porta a considerare la parentesi violenta come elemento di un amore forse non normale, ma accettabile. E’ come un veleno somministrato a piccole dosi. Giorno dopo giorno del quale un po’ ci si abitua ma che porta alla morte. Per questo ci sono relazioni violente che durano anni, decenni senza che la donna si renda conto che la violenza non può fare parte di una relazione sentimentale. Il carnefice viene giustificato, le bugie riguardo lividi o segni sul corpo diventano sempre più scoperte. Da qui il progressivo isolamento delle persone che sono oggetto di violenza.


 D. Da qui l’importanza delle case di accoglienza per le donne, come l’associazione Nondasola.
R. Certo, la consapevolezza di questo stato è fondamentale per porre fine alla relazione e trovare rifugio.


D. Avete intervistato anche uomini violenti, o uomini che si sono resi responsabili di violenza domestica?
A. E’ stato necessario. Essendo una relazione violenta, quindi intrecciata da due persone e per non considerare nel film solo l’aspetto della vittima quindi stereotipandolo, abbiamo parlato con più uomini che si sono resi conto del problema e loro stessi hanno chiesto aiuto. Quello che è venuto fuori è determinato in parte dal ruolo sociale e arcaico dell’Uomo e della Donna. La forza e il possesso contro la sottomissione e il servilismo. Ma non solo. Gli uomini che si sono resi conto della violenza imposta alle loro compagne non sanno  spiegarsi il motivo di quella rabbia che ha prodotto quella violenza.
Questo non li giustifica, certo.  Ma è come un germe che cresce e che ha origine da un primo evento, immotivato. Il film nella scena del primo episodio di violenza, riporta trascritte dal vero, le esatte parole che un intervistato ha detto quando egli stesso ha cominciato ad essere violento. E prima di quel momento la relazione era una relazione, tra virgolette, normale.


D. Perché tra virgolette?
R. Perché l’altro tratto comune, oltre all’isolamento nel quale sprofondano le coppie oggetto di relazione violenta, è la visione stereotipata  dell’amore nelle sue manifestazioni esteriori, ancora prima che la relazione sfoci nella violenza. 
La maggioranza delle coppie che hanno avuto il problema della violenza domestica, quindi sia l’uomo che la donna, avevano una rigidità nella concezione della relazione amorosa, della sua vita e svolgimento, totalmente stereotipata. Esteriorizzata e tendente al perfezionismo. La vita migliore, la bambina perfetta, un rapporto armonioso, gesti , giochi, esternazioni enfatiche . Più forse per convincersi dell’innamoramento invece che avvertire un reale sentimento d’amore. L’uomo che è violento con la propria donna non è incapace di amare, piuttosto non sa gestire il sentimento. Non sa incasellarlo, non ne lima le piccole imperfezioni.
La relazione violenta comincia da una piccola crepa che incrina il castello dorato nel quale la coppia si è rinchiusa. La donna rimane al fianco dell’uomo violento perché quando non c’è quella parentesi di violenza , il castello sembra ricomporsi secondo l’idealizzazione della relazione amorosa, quindi rendendo accettabile la violenza. Un ricatto, dopo tutto.


D. Parliamo del film. Un film che non mostra la violenza ma la sottintende, ne mostra le conseguenze. Un crescendo dall’impatto emotivo molto forte. Difficile. E la struttura in capitoli, 59 che aprono e chiudono ogni sequenza.
R. Non mi interessava l’esibizione della violenza. Volevo descrivere la personalità delle tre persone della famiglia, Il marito la moglie e la figlia. Mostrare l’ambito in cui vivono, la casa, la loro relazione che si salda intorno alla violenza. Soprattutto il mio intento era quello di mettere lo spettatore nella condizione di porsi in discussione. Volevo che il film entrasse nella mente degli spettatori. Vedendo non la violenza ma la sua conseguenza, non le cause ma il contesto,  senza dare giudizi, volevo che scaturisse in ogni persona la domanda: e io? Come sono? Come mi pongo di fronte a questo? Chi sono?
La struttura in capitoli è necessaria, con le frasi Inizio capitolo n. e fine capitolo n. proprio per sottolineare le parentesi, i momenti della vita dei personaggi che non vivono sempre immersi nella violenza ma sono soggetti a momenti precisi, ritmati, dove la frustrazione, l’isolamento, la violenza ma anche la tenerezza della madre verso la figlia, il rapporto tra padre e figlia, sono  momenti che compongono poi il quadro generale.


D. La struttura in capitoli è stata pensata in origine scrivendo la sceneggiatura o è stata fatta in un secondo momento a film scritto?
R. Immediatamente. Una volta finito il lavoro di ricerca avevo ben chiaro che il film sarebbe stato in capitoli e cosa avrei messo nei capitoli. Abbiamo lavorato all’inizio senza sceneggiatura, costruendola passo passo. La bambina invece, che per l’esattezza erano due perché il personaggio della figlia Clara è recitato da due straordinarie gemelle, non ha mai avuto sceneggiatura e ci siamo affidati all’improvvisazione o suscitando emozioni che sullo schermo appaiono come derivanti dall’assistere a situazioni violente, in realtà coinvolgendole in giochi, invenzioni, totalmente disgiunte dal film ma che in sede di montaggio si sono rivelate aderenti alla situazione proposta.
Le due bambine non hanno mai assistito a nessuna scena perturbante. Non ho mai pensato di porre le bambine di fronte alla violenza , le abbiamo sempre protette. E’ difficile lavorare con bambini di quattro anni,  ma è molto facile traumatizzarli e questo ovviamente non lo volevo.
Ad esempio nella scena della vasca da bagno con la madre coperta di lividi, una scena assolutamente necessaria nel film, la bambina che doveva girare la scena ha passato con l’attrice e la troupe di truccatori un giorno intero, giocando con in colori, truccandosi lei stessa e così ha visto che lo stesso colore veniva messo sull’attrice che interpretava sua madre . E’ venuta fuori una cosa spontanea.
L’unica cosa che ho chiesto di dire ad una delle due bambine , è la scena di quando la figlia si autopunisce perché non riesce a fare la pace con il padre e dice “Io sono cattiva” e fa il gesto di picchiare la bambola che ha davanti.
Una scena molto forte sullo schermo ma girata con grande consapevolezza recitativa dalla bambina. Eravamo tutti presenti, è stata una scena breve. Ma è stata l’unica scena del film nella quale ho chiesto di esprimere emozioni e di dire qualcosa che avesse a che fare con la storia.


D. E non c’è nessun commento musicale.
R. No, non ne sentivo il bisogno. Non volevo enfatizzare ne’ in positivo ne’ in negativo alcuna scena. Il lavoro è stato fatto sui suoni diegetici. E quindi anche alla loro assenza. Volevo dare una sensazione di vuoto.


D. Oltre ai tre personaggi principali ci sono personaggi che appaiono ma non sembrano legati alla storia. Oppure scene di animali o l’ultima inquadratura che si presta a varie interpretazioni.
R. Esattamente. Il mio cinema, la mia idea di cinema e in questo film soprattutto non è quella di dare risposte. La cosa bella tra i tantissimi commenti che ho sentito è come le spiegazioni o le interpretazioni di questi aspetti che volutamente ho lasciato sfumati – per me il significato ce l’hanno- fossero assolutamente liberi, vari o assurdi a volte, a seconda della sensibilità, cultura o storia personale di ogni spettatore. Proprio perché volevo far passare le domande di cui parlavo prima trovo giusto che ogni spettatore trovi la risposta più adeguata o giusta rispetto la propria sensibilità.


D. Al di là del prestigioso premio che ha ricevuto a Venezia quale commento le è piaciuto di più riguardo al film?
R. Che è vero. Che quello che mostro è quello che accade nella realtà e nulla è o addomesticato o stereotipato. Questo è il frutto del lavoro di tre anni di ricerca e il commento che è venuto dalle associazioni come questa, Nondasola, e dalle altre che si occupano di questi problemi è la conferma per me di aver fatto un buon lavoro.
 

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