«Un capolavoro. Questa avventura di Wolverine conferma – qualora ce ne fosse ancora bisogno – lo spessore assoluto del Mangold cineasta, che qui dietro l’apparenza del blockbuster confeziona un melò trattenuto sorprendentemente raffinato, tra Akira Kurosawa e Tsukamoto. Non analogico né digitale. Mangold fa cinema spirituale.»

Queste, le parole usate sulla rivista «Sentieri selvaggi» per descrivere l’ultimo blockbuster “d’autore” tratto da una serie di  fumetti targate Marvel. Parole assai lusinghiere, che vanno ad aggiungersi ai già copiosi fiumi di inchiostro versati in nome di qualunque supereroe comparisse sui nostri schermi. Elogi che non risparmiano niente e nessuno, tanto da indurre il recensore di turno a compiere gli scomodamenti più impensabili – non ci sarà davvero alcun imbarazzo, nell’autore del pezzo, nell’accostare AKIRA KUROSAWA al regista del film? Chissà! Magari, nel cuore della notte, l’Imperatore andrà a disturbargli il sonno…

Dunque, di chi è la colpa di tutto ciò? Perché, ad ogni “volar d’eroe”, veniamo inondati da riflessioni proto-filosofiche (tra l’altro, tutte più o meno simili) scaturite tra un pugno che distrugge montagne (che manco Ken il Guerriero) e un monologo esistenziale recitato a testa in giù, sullo sfondo della skyline metropolitana? Be’, direi, senza esitazioni, del buon Christopher Nolan.

Il regista inglese – vero imprenditore, rivenditore e confezionatore di professione – ha “aperto”, con i suoi Batman, quel che si suol dire, un vero e proprio “vaso di Pandora”. È riuscito, infatti, nell’ardua impresa di ribaltare e svilire la concezione d’autore in un marchio facilmente applicabile, mascherando quello che doveva (non “poteva”… doveva!) essere puro intrattenimento a forma d’arte totale. L’arroganza del nostro ha caricato, così, i suoi film di discorsi posticci, già pronti e confezionati per l’uso, conferendogli l’impronta di una nuova e avvenieristica autorialità: quella che non necessita il ragionamento, ma che è servita su di un piatto d’argento - come già scrissi -  all’entrata del cinema assieme ai pop-corn. È venuta meno la leggerezza di prodotti, ben più onesti, come i due Batman diretti da Joel Schumacher – regista modesto ma, sia ringraziato il cielo, mille miglia lontano dall’arroganza nolaniana -, o comunque intrinsecamente autoironici, come quelli (i migliori, probabilmente) di Tim Burton, che da vero postmodernista rigetta qualunque discorso “forte” per ingannare, divertire, citare senza freni.

Infatti, gran parte del successo dei Batman di Nolan è da riferirsi alla loro fastidiosa serietà, al loro prendersi completamente sul serio. Un atteggiamento subdolo, che serve a convincere lo spettatore di trovarsi di fronte ad un’opera davvero importante, con qualcosa da dire. Ed è qui l'altra, fondamentale, questione: dicono poi veramente qualcosa, questi lungometraggi? In realtà, già come Avatar, le possibilità di interpretazione sono talmente vaste, da poter abbracciare una mutlitudine di discorsi, anche in conflitto tra loro – l’11 Settembre, la guerra in Medio Oriente, il terrorismo, l’isolazionismo americano, la crisi economica, il Male, il Bene, la de-soggettivazione dell’individuo, ecc ecc. Una studiatissima vaghezza che rientra perfettamente nel piano di questi registi-imprenditori, probabilmente felici nel constatare come le loro modeste opere siano elevate a rappresentanti dell’autorialità moderna (come diceva qualcuno, «è il pubblico che determina l’autore»…. sic!), producendo, tra l’altro, uno strano effetto di contro-snobismo per cui il cinema da supportare e seguire diventa quello dei grandi incassi, riducendo a zero le possibilità di un discorso alternativo.

Per questi film vengono scomodati nomi di prestigio – Ang Lee per Hulk, Kenneth Branagh per Thor -, forse per confermarne l'"indiscutibile" qualità artisticofilosofica. Le durate si allungano [ qualche esempio? Batman Begins: 140 minuti; Il cavaliere oscuro: 152; Il cavaliere oscuro – Il ritorno 165 minuti (ma stiamo scherzando!?!? Ma cos’è, 2001: Odissea nello spazio!?); L'uomo d'acciaio: 143 minuti… ], come goffo (e sfiancante) tentativo di conferire un ulteriore spessore a questi film. E mentre scorrono le loro ridondanti immagini, assale la nostalgia di un cinema hollywoodiano onesto, che non volesse ingannare lo spettatore con la pretenziosità di un’autorialità sfacciata (perché una volta si lavorava, sì, nel sistema, e lo si combatteva audacemente, aggirandolo) e una filosofia impacchettata, richesta a gran voca più dal produttore che dall’autore del film. Quindi, per ora, non si può far altro che aspettare, sperando che lo spettacolo torni spettacolo.


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