Il cinema di Robert Altman sa presentare la tragedia in assenza del dramma, sa scavare nel profondo dell’anima del suo paese limitandosi e mostrare la superficie illusoria del suo ostentato ottimismo. Usa le vicende minute di piccoli uomini per dare respiro alla grande storia che avanza, per far emergere tra le pieghe di quell’immenso mosaico umano che è il mondo, tanto la natura mistificatrice della storia dei vincitori, quanto i segni non omologati di storie non “ufficiali”. La carriera cinematografica di Robert Altman è contraddistinta da una continua destrutturazione dei generi, caratteristica questa che gli è servita, non solo a piegare gli stilemi del "genere" alle sue particolari esigenze artistiche, ma soprattutto per operare una cesura lucida e consapevole nei riguardi di quei canoni estetici della “classicità hollywoodiana” nei cui riguardi si ha sempre una convenzionale e pedissequa devozione. Il suo cinema è percorso da una critica alla “vecchia Hollywood”, quella che si mostrerebbe incapace di interpretare la realtà che cambia perché condannata a ripetere continuamente se stessa, utilizzando gli stereotipi di sempre e accompagnandosi ogni volta a convenzioni già collaudate. L’assenza di una ricercata linearità narrativa che passa attraverso una coralità di anime che intrecciano casualmente i loro destini e l’uso sapiente del sonoro, che con lui, da entità immateriale ed esterna, si fa corpo che interagisce in maniera attiva con lo spazio circostante, sono le caratteristiche distintive del cinema di Robert Altman, quelle che oltre a distinguerlo come un percorso indipendente e assolutamente riconoscibile, rendono evidente che dentro quell’eterogeneità di persone in movimento, un puzzle umano sempre scomponibile e continuamente sovrapponibile, ci sono i germi di una sensazione di spaesamento che ha messo solide radici, di disagi esistenziali che hanno una matrice sociale prim'ancora che individuale, di cambiamenti epocali che hanno fatto perdere le vecchie coordinate e le solit(d)e certezze, indizi che conducono alle illusioni agonizzanti di una nazione ferita, un paese che si credeva (e si crede) onnipotente e che spesso ha dovuto riscoprirsi debole come tutti gli altri. Ecco, trovo che l’alchimia straordinaria del cinema di Robert Altman stia nel fatto che sa coinvolgere più emotivamente che intellettualmente, anche se appaiono evidenti la carica sociale e la spinta militante che lo percorrono, l’invito a ripassare la storia al vaglio di una cosciente analisi critica e l’impeto rivoluzionario di un ribelle istintivo. In una parola, il cinema di Robert Altman fa la storia in assenza di storie. Credo, addirittura, che per chiunque voglia saperne di più sulla storia americana, il suo cinema rappresenti un pregevole strumento analitico. Soprattutto quello degli anni settanta, quando quel “bizzarro irriverente” di Robert Altman davvero non ha sbagliato un colpo.
I dottori "mattacchioni" dell'ospedale da campo 4077, rispondono agli echi distorti di una guerra assurda con l'ostentata ricerca di un assurda normalità. Un attacco frontale ad ogni logica guerrafondaia compiuto con l’arma corrosiva e dissacratoria della farsa.
I compari John McCabe e Costance Miller non possono nulla contro l’indole corporativa del capitalismo dei monopoli. La loro vicenda umana rappresenta un canto di morte per ogni tentativo di sfuggire alla ferrea legge del più forte.
Robert Altman usa il "tipo chandleriano" per indagare sullo stato di salute del “sogno americano”, mostrare come la ricerca disinteressata della verità si è persa nei dedali disincantati della perdita dell’innocenza.
Con Keith Carradine, Shelley Duvall, Bert Remsen, John Schuck, Louise Fletcher, Ann Latham
Le gesta di piccoli uomini entrano in rotta di collisione con lo scorrere poderoso della grande storia, le loro rapine si mischiano alle speculazioni “legalizzate”, la loro voglia di tenerezza con i sintomi deleteri di un paese sbandato.
La confusione esistenziale di un'intera generazione, la sensazione di spaesamento di un intero popolo, si percepiscono tra le pieghe di esperienze umane che sembrano rimaste sospese in una sorta di limbo atemporale, incerte su cosa sia più giusto fare, strette tra un passato recente pregno di speranze e un presente votato all'incertezza.
Con Andie MacDowell, Jack Lemmon, Tim Robbins, Julianne Moore, Matthew Modine, Chris Penn
Il sogno americano è definitavamente morto, la difficile incomunicabilità tra le persone, l'indifferenza generalizzata verso la società, l'inaffettività che ssi è fatta sistema, attendono solo il loro corolllario di morte e distruzione. Il futuro sembra non esistere.
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