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JACK THE RIPPER & FRIENDS
di Marcello del Campo ultimo aggiornamento
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Marcello del Campo

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JACK THE RIPPER & FRIENDS


Lo uccisi perché mi svegliò. Mi ero coricato tardissimo e morivo dal sonno. Con un manrovescio, zac, gli feci rotolare la testa per terra.

 
(Cervantes, Don Chisciotte, I, 37.)
 
Un delitto d’impeto può essere ‘esemplare’ come scrive Max Aub in Delitti esemplari, ma non è necessariamente ‘artistico’.
Non è artistico il delitto riferito da Thomas Bernhard: un uomo buono, da tutti ritenuto onesto e saggio, un bel giorno uccide la moglie, i numerosi figli, la suocera; alla domanda perché l’abbia fatto, risponde: “Non lo so, a un certo punto mi sono sembrati troppi.”
Chi di noi non ha pensato di uccidere per un banale motivo? È più facile uccidere che reprimere questo sentimento umano.
Scrive Giorgio Manganelli: Ora, non v’è dubbio che l’omicidio sia estremamente interessante e, tutto considerato, divertente. L’assassino porta sulle sue spalle una grande e drammatica responsabilità- egli è il delegato di tutti gli assassini che non uccidono. […] l’assassino non è una figura periferica, il “mostro”, ma è l’immagine dei nostri sogni, dei nostri incubi.
E Ambrose Bierce fa una distinzione sottile: Esistono quattro tipi di omicidio: esecrabile (o a tradimento), giustificato, scusabile e degno di lode. Questo comunque importa poco alla vittima: la distinzione è per gli avvocati.
Max Aub incalza, raccoglie testimonianze di delitti esemplari, commessi cioè in uno stato di fastidiosa sensazione di insopportabilità, come quando si spiaccica una zanzara e ci si sente liberati da un incubo:
 
a) si può ammazzare qualcuno perché inconsciamente la vittima desidera essere uccisa (“ – Meglio morta – disse. E l’unica cosa che desideravo era di darle soddisfazione!”)
 
b) perché il commensale che ci sta di fronte non sa stare a tavola (“Lo uccisi perché invece di mangiare ruminava.”).
 
c) Perché uno è brutto (“Era tanto brutto, quel poveraccio, che ogni volta che lo incontravo mi sembrava un insulto. Tutto ha un limite”)
 
d) Ma può uccidere anche uno come Ignazio La Russa (“Ci provino adesso a fare le manifestazioni contro il governo!”).
 
C’è chi come E. M. Cioran non va tanto per il sottile (“Non appena si esce per strada, alla vista della gente, sterminio è la prima parola che viene in mente.”).
 
Come dar torto a questi lucidi pensatori!
 
Bisogna andare indietro nel tempo (non siamo tutti illuministi: il mondo non va vanti né indietro, ruota incessantemente su se stesso) per trovare un sistematore appassionato dell’ammazzare.
 
Thomas de Quincey è stato il primo ad avere, con felice verve, intuito che esiste un’ars necandi. (naturalmente non sapeva né poteva prevedere la futura piega funesta degli eccidi di massa, il suo è un punto di vista esteticamente ilare, paradossale, incruento. L’assassinio come una delle belle arti va considerato alla stregua delle provocazioni che si risolvono nel contrario di ciò che si afferma. Un testo eccelso è, in questo senso la modesta proposta swiftiana per risolvere il problema della fame e del sovrappopolamento mangiando i bambini o la beffarda idea di Céline di risolvere il problema della disoccupazione uccidendo i disoccupati.)
Certo è che l’idea di De Quincey di creare una ‘società per la diffusione del vizio’ in un’epoca incline alla moralizzazione di massa [ma non dei potenti nei loro postriboli!] – come la nostra – non è da buttare.
L’assassinio come una delle belle arti si occupa di delitti ‘artistici’, ben architettati, mirabilmente commessi, a De Quincey ripugna la macelleria di Jack The Ripper.
Più noto come l’autore delle Confessioni di un oppiomane, De Quincey pone le basi della prima compiuta formulazione della teoria generale dell’assassinio come opera d’arte, immaginando una società per la diffusione del vizio i cui membri trascorrono le lunghe giornate del brumoso inverno londinese commentando i più raccapriccianti fattacci di cronaca, via via esaltandosi per le più rimarchevoli imprese criminose, lamentando la rozzezza dei criminali.
De Quincey afferma la legittimità dl porsi al cospetto dell’assassinio come di una qualunque opera d’arte. Se si prescinde da qualsiasi considerazione morale, in effetti, come negare il fascino che su ciascuno di noi esercita un omicidio ben riuscito, un’artistica decapitazione, un’impiccagione esteticamente ineccepibile?
L’assassinio nobilmente auspicato da De Quincey, precisiamolo, è un gesto di trasgressione assolutamente individuale: è una ribellione gratuita alla soffocante morale vittoriana.
L’assassino deve scegliere con cura la sua vittima: preferibilmente un uomo dabbene E poi: la vittima deve essere in piena salute. L’uccisione di un ammalato sarebbe una barbarie, poiché chi è malconcio in salute difficilmente potrebbe sopportare con dignità il ruolo di vittima.
A titolo d’esempio, non si dovrebbe mai scegliere un sarto di età superiore ai venticinque anni: passata quell’età, egli sarebbe certamente dispeptico.
Sullo sfondo di questo ordito sarcastico, la Londra della rivoluzione industriale, un mattatoio nel quale l’assassino tipo mister Williams, immortale ballerino del martello, nella sua bieca dignità si rivela progenitore del Verdoux di Chaplin.
Siamo condotti per mano nel labirinto del crimine: se si è padroni della propria intelligenza, si riconosceranno i segni dell’ironia e del distacco, della contraddizione e del gioco intellettuale.

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Non è un paese per vecchi

  • Drammatico
  • USA
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