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LOUIS MALLE. IL DEMONE DELLA FUGA.
di Marcello del Campo ultimo aggiornamento
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LOUIS MALLE. IL DEMONE DELLA FUGA.

Ci sono combinazioni miracolose che concorrono alla riuscita di un buon film. Ascensore per il patibolo (1957), [dall’omonimo romanzo di Noël Calef], opera di esordio di Louis Malle è il risultato di una miscela fortunata, nata da un plot nemmeno tanto originale e una colonna sonora che ancora oggi vive di vita propria. Davis era già un trombettista astrale, ma non era detto che riuscisse in poche sedute a tirare fuori dal suo strumento una musica tanto aderente all’atmosfera del film, invece accade il miracolo, è la sua musica a dettare l’atmosfera del film: la voce di Miles è sempre stata come un’ombra invisibile che lentamente emerge dalle brume senza che te lo aspetti, striando il bianco e nero con una lama di luce invisibile.
Il retro di copertina del disco della Philips del 1957 annota: “Ascenseur pour l’échaufaud (o Lift to the Scaffold in inglese) fu realizzato nel 1957 con la regia di Louis Malle e Jeanne Moreau come interprete. A quel tempo Miles Davis lavorava al Cafè Bohèmia del Greenweech Village ma venne (a Parigi) apposta per la registrazione... Il film fu proiettato sullo schermo e i musicisti improvvisarono seguendo l’azione e le emozioni cui assistevano. La performance era dominata dal suono di Miles Davis, che indicava la direzione che aveva da prendere la musica... “.
Dunque, a Parigi nel 1957 Miles Davis, il grande trombettista, improvvisa insieme a Barney Wilen (sax tenore), René Utreger (piano), Pierre Michelot (basso), Kenny Clarke (batteria), la soundtrack per Ascensore per il patibolo di Louis Malle. Venti anni prima della sua definitiva partenza per l’America, Malle si imbatte nel suono di una parte di quella nazione dove finalmente libero (o quasi) da condizionamenti e preconcetti girerà Pretty Baby con Brooke Shields, Keith Carradine e Susan Sarandon (il suo più grande amore insieme al jazz) e Atlantic City con Burt Lancaster, il vecchio Lou, poetico e trasognato gangster di basso stato.
La vita e le opere di Malle si situano nei modi della fuga. “Regista abile e volubile, passa da un genere all’altro” afferma Sadoul, come se questo fosse un difetto. Ma a Sadoul, critico vetero-marxista, piacciono i talenti legati allo stesso racconto, come se il cinema fosse coazione a ripetere e non ampia disponibilità a creare nuove direzioni e immagini. Certo, Malle è volubile, altro aspetto (psicologico) della fuga. La sua prima fuga è da bambino, quando viene strappato dai tedeschi ai carmelitani di Fontainebleau dove i genitori, ebrei deportati, lo avevano messo al riparo. Da questa esperienza contrae la malattia cardiaca di cui si ricorderà nel 1971 in Soffio al cuore. Ventenne pieno di curiosità fa il reporter subacqueo con Jacques Cousteau, e con Marcel Ichac gira Il mondo del silenzio. Nel ‘56 collabora con Robert Bresson al film Un condannato a morte è fuggito (ancora la fuga) e il maestro Bresson lo aiuta a fare Ascensore per il patibolo che vince il premio Louis Delluc. Malle ha solo ventiquattro anni. Apparentemente il film è un angoscioso thriller con il colpevole di un delitto braccato dal destino in un ascensore bloccato. Malle va altre: l’impossibilità di uscire è negata, così come la fuga. L’attore chiuso nell’ascensore è Maurice Ronet, un viso bello ed enigmatico che in quegli anni rappresenta la figura tipica dell’intellettuale alla deriva. Lo vedremo ancora in Fuoco fatuo (1963), dello stesso Malle, rappresentare l’impossibilità di vivere di Drieu La Rochelle. Anche Ronet (morto prematuramente nel 1982) è attore raro e appartato come la musica di Miles Davis. In Ascensore per il patibolo Malle esalta lo splendore della giovane Jeanne Moreau in una toccante interpretazione: l’attrice rugosa del 1982 in preda ai deliri sacrificali di Fassbinder è un‘ombra che conviene lasciare ai fan del regista tedesco. Talvolta Malle è più estroverso fino all’inconsistenza [Vita privata del 1961 è occasione di omaggio al sex appeal di Brigitte Bardot; Viva Maria! del 1965 raddoppia l’omaggio alla Bardot e la pone a confronto con la Moreau in un divertissement stralunato], ma il regista è attratto dalla letteratura: Les Amants (1958), Zazie nel metro (1960), Fuoco Fatuo (1963), Il ladro di Parigi (1966), William Wilson [segmento di Tre passi nel delirio, 1967] rappresentano un’ulteriore fuga dalla Nouvelle Vague allora in auge presso la critica. Il romanzo di Raymond Queneau, pieno di sottotesti e giochi linguistici era, in realtà, difficile da trasporre nella sola dimensione filmica; più lineare Les Amants, tratto dal romanzo settecentesco di Dominique Vivant-Denon; Fuoco fatuo si ispira a un romanzo di culto dello sfortunato scrittore Drieu La Rochelle, ‘collaborazionista’: Malle si assume i rischi che questa scelta comporta, una scelta che ripeterà con Lacombe Lucien”; meno noto era Georges Darien, autore del romanzo Il ladro, scritto tra il 1894 e il 1904, morto e dimenticato nel 1921, che per André Breton costituiva “L’attacco più rigoroso […] contro l’ipocrisia, l’impostura, la stupidità, la viltà.”; infine, con Edgar Allan Poe Malle chiude con la Francia: a questa decisione lo spingono il suo carattere mercuriale e probabilmente le polemiche scaturite dal suo cinema non allineato, soprattutto Lacombe Lucien (1974), scritto da Malle insieme al noto scrittore Patrick Modiano, in cui il regista indaga, con un’adesione di rara intensità, la storia di un giovane collaborazionista del sud della Francia. Il film viene rifiutato a destra come a sinistra: l’oggetto del dissidio è se sia lecito occuparsi dell’educazione sentimentale di un giovane contadino rozzo e ignorante che, istintivamente, senza alcuna consapevolezza politica, sceglie di stare dalla parte sbagliata. Il personaggio Lucien Lacombe è un risentito sociale che trova una sorta di redenzione provvisoria nella partecipazione alla guerra di liberazione partigiana, ma lo stigma di appartenenza, l’essere un trovatello con un padre autoritario, lo inchioda a un’incomprensione che Malle descrive, secondo alcuni critici, con troppa partecipazione emotiva (vedi Mereghetti). Qualcosa dell’infanzia difficile del regista lo spinge all’estrema difesa di un personaggio indifendibile. Questa è la cifra di Malle, che si tratti di narrare il suicidio del brillante autore di Fuoco fatuo, Drieu la Rochelle, collaborazionista nel governo di Vichy, amico di Brasillach (un’altra testa brillante, autore di una sapiente Storia del cinema che ancora oggi gli editori italiani si rifiutano di pubblicare), sodale di Céline, uno dei massimi autori del Novecento, toccato dalla paranoia antisemita, insomma bucce di uomini come scrive Rilke nei Quaderni di Malte, ai quali Malle dona la chance di vedersi rappresentati nella loro spoglia, derelitta umanità, non perdonando loro, non riconciliandosi con chi scelse di stare dalla parte sbagliata, ma cercando di indagarne il fondo scuro dell’anima.
A Malle non si perdona nulla, non gli si perdona di essere solitaire-solidaire, il suo cinema, che oggi definiremmo politicamente-scorretto, è accolto con fastidio da una critica superciliosa, dogmatica che non accetta che si esca dal recinto del marx-leninismo. E Malle, uomo della fuga, è deluso dall’accoglienza riservata a Luna nera (1975), un film di periferica ispirazione surrealista, - dedicato alla memoria di Thérèse Giehse, (tra gli interpreti anche in Lacombe Lucien) straordinaria attrice tedesca, - debitore di Alice del reverendo Carroll e scaturigini che oggi definiremmo fantasy.           
Il demone della fuga ritorna: Malle parta per l’India e in quattro mesi gira quaranta ore di pellicola da cui estrae Calcutta (1969), opera di ricerca dell’Oriente e della sua magia, osteggiate dalla borghesia angloindiana. Dai più giovani l’opera viene osannata come una specie di Siddharta estetizzante, un viaggio profondo e traumatico.
 La delusione, l’insofferenza spingono Malle verso l’America dove raccoglie alcune soddisfazioni. Il suo stile cambia e, cessata probabilmente la fuga, l’uomo è preso da un‘esigenza di realismo (eredità di Bresson) e da un’osservazione più attenta della vita e delle persone (forse Tati): “(bisogna) usare la macchina da presa come strumento mediante il quale registrare emozioni, sorpresa, sgomento; per ottenere ciò inventiamo un nuovo modo di girare, fare riprese a raffica, una raffica di là. una raffica di qua”, afferma Malle, “l’importante è cercare di cogliere il maggior numero di sfaccettature possibile.”
I quindici anni che seguono sono segnati da film di routine, salvo Alamo Bay, Milou a maggio, Atlantic City;il ridicolo Il danno dal ridicolo romanzo di Josephine Hart che imperversò nelle vendite del 1990, non sembra un film di Malle infine due perle, Arrivederci ragazzi (1987) e Vanya sulla 42° strada, straordinaria trasposizione sperimentale di Cechov, ovvero come filmare il teatro.
Siamo nel 1994: Malle fugge per sempre.

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