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JOHN DAHL E LA CRITICA CURIALE
di Marcello del Campo ultimo aggiornamento
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JOHN DAHL E LA CRITICA CURIALE

 
 
 
 
 
Sembra che la critica italiana, usa a obbedire sparlando, non digerisca (né abbia mai digerito) alcuni film nel quale, a suo parere, si avanzi (anche se non c’è), l’ombra di Quentin Tarantino alla quale la critica stessa si è stretta in un abbraccio indissolubile, qualsiasi schifezza Quentin abbia girato e prodotto [Nota: fare una lista del Tarantino-producer, basterebbe a mandarlo all’inferno].
Prendiamo Qualcuno sta per morire di Carl Franklyn, Le vie della violenza di Christopher Quarry, Narc di Joe Carnahan, - sono film che aprono al neo-noir e lo fanno bene, ma se leggiamo Mereghetti o altri critici col prosciutto agli occhi, quelli sentono con le orecchie che si tratta di ‘tarantinate’. Un vezzo da ultima morta provincia dell’Impero: non avrai altro dio che Tarantino.
Poi a uno gli prende la stufia e butterebbe nel cassonetto Mereghetti, Morandini & Company, liberandosi dalla stretta del cinema-pensiero-unico. Diffidare degli ammiratori ed esegeti dell’ex ragazzo del videostore, significa riprendersi la libertà di farsi piacere un regista come John Dahl che da circa una ventina di anni ha circumnavigato i ‘generi’ con risultati più che apprezzabili.
 
Il cinquantaquattrenne regista del Montana, dopo un esordio discreto in direzione crime-movie-road, Morire due volte (Kill Me Again) nel 1989, con Val Kilmer (Dahl sceglie sempre buoni interpreti), induce il Mereghetti a pontificare: “scrupoloso ricalco  […] dei vecchi noir […] Dahl scegli bene le location…” ma boccia il film perché (udite udite), “i coniugi Kilmer non sono all’altezza” e non si capisce a quale ‘altezza’ alluda il critico che ha alle spalle il fosco prete Fofi, uno che se non vede al microscopio la lotta di classe (anche nel deserto del Nevada), non ci va a nozze con un film. Va citato il giudizio del trio Morandini che parla di “un thriller che non manca di momenti di squallido fascino sensazionalistico”, dove ‘squallido’ è solo l’uso intemerato dell’aggettivo ‘squallido’ di origine salesiana. 
 
Segue Red Rock West nel 1993: se le cose nel Nevada andavano male, Mereghetti sbuffa che vanno peggio nel Wyoming, Dahl, dice, non ha visto Blood Simple dei Coen, tutto sa di risaputo, va be’, Dennis Hopper, Nicholas Cage, ma vuoi mettere Hot Spot di Hopper? La famiglia Morandini, al contrario, afferma che Dahl ha visto i Coen e che il film è “efficace, ma convenzionale. Scritto dai fratelli John e Rick Dahl sulla scia dei fratelli Coen” - che è un modo di intendere la critica come un paragone assillante, persecutorio tale che dopo Sentieri Selvaggi nessun regista avrebbe dovuto o potrebbe ancora girare un western.
 
I critici sono preti senza tonaca che con l’aspersorio delle stellette vorrebbero dirigere i gusti delle masse che, per fortuna, fanno come dice loro la testa.
 
Ed ecco che nel 1994 arriva L’ultima seduzione (The Last Seduction): Linda Fiorentino toglie il respiro (il film, proposto l’anno dopo in televisione all’ora di cena, provoca una bacchettona interpellanza parlamentare per la scena al bar in cui la bellissima star, chiede al barista da bere, quello si distrae e lei: “Mi dai da bere o devo succhiarti l’uccello?”. Panico da blowjob con share alto: il capofamiglia tipico – mani sulla patta – urla che la questione è morale, bisogna farla finita.). Linda Fiorentino – non posso negarlo – è per me la più seducente femme fatale del cinema contemporaneo, ma  Mereghetti non si lascia sedurre neppure da Peter Berg e Bill Pullman, “neo-noir che puzza di fasullo”, sbotta, intanto ha capito che si tratta di un neo-noir e questo è lodevole perché denota un loffio guizzo di intelligenza del prelato. Quanto alla ‘visibile bellezza’ di Linda Fiorentino (che esploderà l’anno dopo nell’incompreso Jade di Friedkin), l’intera famiglia Morandini sfiora il ridicolo: Luisa, Laura e Massimo scrivono che “Linda Fiorentino non è bella, ma ha l'aria di esserlo e come dark lady funziona” come loro hanno l’aria di essere critici senza esserlo.
 
Alternando episodi di serial televisivi (Californication, Dexter, Battlestar Galactica ecc), Dahl fa cinema (calco o meno, ma cinema), intanto che Mereghetti & Company, con la benedizione di Zdanov, hanno cominciato a fare a pezzi Quentin Tarantino e tutto ciò che odora di pulp: la critica italiana (non tutta, per fortuna) anela al ‘nuovo’ e il ‘nuovo’ lo trova in quattro gatto-film spelacchiati di genere commediaccia all’italiana. Da questa sciroccata testuggine critica non si salvano neppure i Coen, colpevoli di essersi presa qualche licenza humour-remake.
 
A leggere Mereghetti parrebbe che il peggior film di Dahl gli sia piaciuto: siamo nel 1996, il film è Unforgettable (Specchio della memoria); scrive il Nostro: “un thriller psico-fisiologico che contamina con una certa originalità noir e fantascienza…”; è la volta buona, forse il film gli è piaciuto (lasciamo a noi Linda Fiorentino, Ray Liotta, Peter Coyote), ma no!, “…è appesantito da una regia iperrealista che eccede nei flashback [… ] annega nella confusione.”; può darsi, ma Mereghetti è confuso di suo, che significa ‘thriller psico-fisiologico’ dovrebbe spiegarcelo.
 
Anche a chi non è un fan di Dahl The Rounders (Il giocatore) del 1998, parrebbe un buon film: plot ben oliato, cinema che si rifà, ma non ricalca il ‘genere-poker’ da Bob Le Flambeur alla Stangata, da Cincinnati Kid a California Poker, ecc., giovani star a inizio carriera, Matt Damon, Edward Norton, e poi John Turturro, Gretchen Mol (hai detto!), John Malkovich, Martin Landau, produzione Ted Demme, musica di Christopher Young, sceneggiatura di David Levien e Brian Koppelman; non all’abate Mereghetti che gli dà una stentata sufficienza perché, a suo dire, la sceneggiatura è prevedibile (un aggettivo che il critico ostenta spesso, nemmeno fosse un profeta: e si capisce, nei film di ‘genere’ la prevedibilità è uno degli ingredienti ‘prevedibili’, in un western sappiamo subito chi finirà ammazzato in un duello, fatta eccezione per Il grande silenzio di Corbucci!); anche la performance di Malkovic è ritenuta sopra le righe dal critico sul trespolo che non sa trovare niente di realmente serio per bocciare il film. Storce il naso Tullio Kezich che, a forza di coltivarne la puzza sotto, gli si era storto per davvero, ma la sensata Lietta Tornabuoni più conciliante scrive: “Il film non ha niente di speciale e Matt Damon neppure, mentre sono molto bravi i personaggi minori ed Edward Norton, che è candidato all'Oscar per l'interpretazione di American History X: ma l'insieme ha qualche originalità, una esattezza psicosociologica e una vitalità interessanti.”.
 
Nel 2001 è la volta di Joy Ride, orrendamente tradotto in italiano Radio Killer. Qui i puzzo al naso uniti marciano insieme, Kezich, Porro, i Morandini; l’accusa è sempre la stessa, il film “è ispirato a Duel e The Hitcher”, solfeggia Mereghetti, “la partenza è ottima ma… [ecco il ma!] il cinema americano non sa rischiare”, un’accusa stupida a un regista che ha sempre rischiato di essere impiccato dai critici italiani, sempre in tenuta da caccia di retroguardia zdanoviana. Per fortuna c’è Pier Maria Bocchi che su Filmtv del 2002 scrive: “Un suspenser nudo e crudo, che […] recupera un cinema di divertimento essenziale lontano da beceraggini e da offese alla ragione e al buon senso. Dahl utilizza i luoghi e i loro stereotipi con bella cognizione, sbattendo di qua e di là i suoi volti giovani, troppo lindi per non indurre il Male in tentazione (Steve Zahn anche, ma Paul Walker e soprattutto la Leelee Sobieski sembrano fatti apposta per essere trucidati). Senza crepe nel ritmo, né squilibri di toni.”.
 
Bocchi ha capito che Dahl è un regista che lavora sottilmente sui ‘generi’, senza lasciarsi prendere la mano da omaggi al passato o da impossibili rivisitazioni; Dahl è un onesto artigiano di cinema post-modern senza fronzoli autoriali e questo approccio ‘popolare’ fa dare di matto agli odiosi critici mereghettiformi che vorrebbero sempre e solo Tarantino e sono costretti a essere scontentati da Dahl. Per non dire che ci sono registi degli anni d’oro del noir, i quali, massacrati dalla critica coeva, si sono presi una bella rivincita, vedi Jack Hill, Joseph H. Lewis.
 
In The Great Raid – Un pugno di eroi del 2005, John Dahl firma il suo film peggiore, nel tentativo di ‘rifare’ il war movie anni Cinquanta. Allontanatosi dalla sua precipua attenzione verso gli emblemata del noir, cade nella trappola della retorica bellicista. Finalmente il curiale Mereghetti ha ragione: “Dahl sembra un pesce fuor d’acqua.”
 
Mentre è in produzione per il 2012 Rounders 2, Dahl torna sugli schermi nel 2007 con You Kill Me, un crime-movie mai arrivato sugli schermi italiani. La miopia dei distributori, unita alla cecità dei critici, ancora una volta fa buca, perché You Kill Me è un piccolo cult come Caccia Spietata, Redbelt, In Bruges che nelle estati passate erano miracolosamente approdati nelle provincialissime sale italiane.

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