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WELLES parla di WELLES (prima parte)
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Utente rimosso (mike patton)

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WELLES parla di WELLES (prima parte)

Tra le interviste rilasciate da Orson Welles questa che riportiamo apparsa sui  Cahiers  nel 1965, ci è sembrata la più densa di notizie, anche se ormai abbastanza invecchiata. Welles parla soprattutto del suo film  Il processo, di  Dou Chisciotte un’opera rimasta incompiuta e che invece il regista dà per quasi terminata, e del  Falstaff allora in fase di realizzazione. Ci sono però anche tanti riferimenti alle sue pellicole più celebri e celebrate, ai suoi rapporti con Hollywood, e soprattutto ci sono tante curiose qffermazioni su altri registi: Chaplin, Ejzenstejn, Von Sternber, Ford, Hawks, Wyler e Kubrick, giudizi critici su alcuni film  L’anno scorso a Marienbad ,  Furia selvaggia ,  Rapina a mano armata  e anche ricordi autobiografici su vari personaggi tra cui Brecht e Hemingway.


KAFKA E K.



Nel  Processo si ha l’impressione che lei faccia una severa critica all’abuso di potere. A meno che non ci sia qualcosa di più profondo: Perkins sembra una specie di Prometeo



E’ anche un piccolo burocrate, che io considero colpevole.


Perché colpevole?


Non lo so. Appartiene a qualcosa che rappresenta il male e che, al tempo stesso, fa parte di lui. Non è colpevole di quanto gli viene rimproverato, ma è colpevole lo stesso. Appartiene ad una società di colpevoli, con la quale collabora. In ogni modo, io non sono l’analista di Kafka.


Joseph K. dovrebbe lottare?

 
Non lo fa, forse dovrebbe farlo, ma io non prendo posizione nel mio film. K. collabora per tutto il tempo. Anche nel libro di Kafka. Soltanto alla fine gli permetto di sconfiggere i suoi carnefici.


Esiste una versione del copione con un finale diverso: K. moriva sotto i colpi di pugnale dei suoi carnefici.


Questo finale non mi piaceva. Credo si tratti di un  balletto  scritto da un intellettuale ebreo prima di Hitler. Dopo la morte di sei milioni di Ebrei, Kafka non avrebbe potuto pensarla così. Non voglio dire che il mio finale sia buono, ma era l’unica soluzione. Dovevo accellerare, anche se sono per pochi istanti.

 
Una delle costanti della sua opera è la lotta per la libertà e la difesa dell’individuo.


Una lotta per la dignità. Non sono assolutamente d’accordo con quest’opere d’arte, questi romanzi, questi film che oggi parlano di disperazione. Penso che un artista non possa prendere come soggetto la disperazione totale: essa è troppo vicina alla vita di tutti i giorni. Un soggetto del genere può essere utilizzato solo quando la vita è meno pericolosa e decisamente positiva.


  Nella trasposizione cinematografica del Processo vi è un cambiamento fondamentale: nel libro di Kafka il personaggio di K. è più passivo di quanto non lo sia nelfilm.


L’ho reso io più attivo, in senso proprio. Non credo che i personaggi passivi si addicano al dramma. Non ho niente contro Antonioni, per esempio. Ma per interessarmi, i personaggi devono fare qualcosa, dal punto di vista drammatico, s’intende

Il Processo  era un suo vecchio progetto?


Ho sempre pensato che si poteva ricavare un buon film da questo romanzo, ma senza pensare a me. Qualcuno è venuto a trovarmi e mi ha detto che pensava di riuscire a trovare i soldi per girare un film in Francia. Mi ha dato una lista di titoli invitandomi a scegliere. Su quindici film ho scelto il migliore  Il processo. Dal momento che non potevo girare una storia scritta da me, ho scelto Kafka.

Quali sono i film che vuole veramente fare?


I miei. Ho dei cassetti pieni di copioni scritti da me.
 
LE TECNICHE

Nel  Processo  la lunga carrellata su Katina Paxinou che trascina il baule mentre Anthonj Perkins le parla, vuole essere un omaggio a Brecht?


Non l’ho vista così. C’era una lunga scena con lei che durava dieci minuti e che peraltro ho soppresso alla vigilia della prima a Parigi. Ho visto il fim per intero una sola volta. Eravamo ancora in fase di missaggio e mancavano pochi giorni alla prima all’ultimo momento, ho tagliato la scena. Doveva essere la migliore scena del film e invece non lo era. Qualcosa non aveva funzionato. Non so perché, ma non era riuscita. Il soggetto di questa scena era il libero arbitrio. Era intinta di una sfumatura da commedia nera, ed era il mio cavallo di battaglia.

Perché Joseph K., alla fine, vede le diapositive con la storia del guardiano, della porta, ecc.?

 
E un problema tecnico, necessario per raccontare questa storia. Se fosse stata raccontata a parole, il pubblico si sarebbe addormentato; è per questo che la racconto all’inizio e la ricordo soltanto alla fine. L’effetto ottenuto equivaleva a raccontare la storia in quel momento, e potevo farlo, attraverso il dia-proiettore, in pochi secondi. Comunque non spetta a me fare l’avvocato difensore.



IL PROCESSO: IL FILM
 

Un critico, che ammira molto la sua opera, ha detto che nel Processo lei si ripeteva



Si, mi sono ripetuto. Credo che capiti a tutti. Riprendiamo sempre certi elementi. Come evitarlo? Un attore ha sempre lo stesso timbro di voce e, di conseguenza, si ripete. E questo non è meno vero per un cantante o un pittore... Ci sono sempre delle cose che ritornano, perché fanno parte della propria personalità, del proprio stile. Ripetermi, non è nelle mie intenzioni, ma nel mio lavoro devono esserci necessariamente dei riferimenti al passato. Per me, ll processo è il miglior film che abbia mai fatto. Ci si ripete solo quando si è stanchi. Ebbene, io non ero stanco. Non sono mai stato così felice come quando ho fatto questo film.

  Come ha girato la lunghissima corsa di Anthony Perkins?

 

Disponevamo di un palcoscenico molto lungo e la macchina da presa era piazzata su una sedia a rotelle.

Ma la velocità è enorme!

 
Sì, ma avevo un corridore jugoslavo per spingere la mia macchina.

 
Quello che è sorprendente nella sua opera è questo sforzo continuo di apportare delle soluzioni ai problemi che pone la realizzazione.


Il cinema è ancora molto giovane, e sarebbe del tutto ridicolo non riuscire a trovare delle cose nuove. Se solamente potessi fare più film! Sapete cos’è successo al Processo? A due settimane dalla partenza da Parigi per la Jugoslavia, ci hanno detto che non era il caso di preparare una sola scena laggiù perché il produttore aveva già fatto un altro film in Jugoslavia e non aveva ancora pagato i debiti. Ecco perché si è dovuto utilizzare questa stazione fuori uso. Avevo progettato un film del tutto diverso. Tutto è stato inventato all’ultimo minuto, perché il mio film era differente nella sua intera concezione. Si basava sull’assenza della scenografia. E il gigantismo delle scene che mi è stato rimproverato è dovuto in parte al fatto che come palcoscenico non avevo che questa vecchia stazione abbandonata. Una stazione ferroviaria vuota, immensa! L’opera così come l’avevo abbozzata, prevedeva delle scene che scomparivano gradualmente. ll numero degli elementi realistici doveva diminuire sempre di più, ed il pubblico doveva avere la sensazione che tutto si fosse dissolto.

 
Nei suoi fllm il risultato del movimento congiunto degli attori e della macchina da presa è molto bello.


E un’ossessione visiva. Io credo, pensando ai miei film, che siano imperniati non tanto sul conseguimento di qualcosa, ma piuttosto sulla ricerca. Se noi cerchiamo qualcosa, il labirinto è il luogo più adatto alla ricerca. Non so perché, ma i miei film sono tutti, in gran parte, una ricerca fisica.


Lei riflette molto sulla sua opera.
 


Mai a posteriori. Io rifletto sui miei film mentre li preparo. Per ogni film faccio una enorme quantità di preparativi, che metto da parte solo nel cominciarli. Quel che è meraviglioso nel cinema, che lo rende di gran lunga superiore al teatro, è che possiede molti elementi che possono sovrastarci ma anche arricchirci, offrendoci una strada che non troviamo altrove. Il cinema deve sempre essere la scoperta di qualcosa. Io credo che il cinema debba essere essenzialmente poetico. Per questo nel corso delle riprese, e non nella fase di preparazione, cerco di innescare un processo poetico che differisce dal processo narrativo o dal processo drammatico. In realtà, sono un uomo pieno d’idee. Sì, più che un moralista sono un uomo pieno d’idee.

 
SHAKESPEARE E VAN GOGH



Crede che possa esistere una forma di tragedia staccata dal melodramma?



Si, ma è molto difficile. Per qualsiasi autore di tradizione anglosassone, è molto difficile. Shakespeare non c’è mai riuscito. Ci si può arrivare, ma finora nessuno c’è riuscito. La tragedia non può sfuggire al melodramma. Possiamo sempre servirci degli elementi tragici e forse anche della grandiosità della tragedia, ma il melodramma è sempre inerente all’universo culturale anglosassone. Non vi è alcun dubbio.

 

E vero che i suoi film non corrispondono mai al loro progetto?

 

No. In verità, devo dire che cambio frequentemente idea. All’inizio ho una nozione base del film. Ma ogni giorno, ogni istante questa nozione è deviata dall’espressione degli occhi di un’attrice, dalla posizione del sole. Non ho l’abitudine di progettare un film e di mettermi a farlo. Quando preparo un film, non ho l’intenzione di fare questo film. La preparazione ha lo scopo di liberarmi perché possa lavorare a modo mio: per pensare a dei brani di film e al risultato che daranno; ci sono delle parti che mi deludono perché non le ho concepite complete. Non io quale termine adoperare, perché ho paura dei termini pomposi quando parlo di un film. Il grado di concentrazione che raggiungo quando creo, che duri trenta secondi o due ore, è sempre molto elevato. E per questo che quando giro ho molta difficoltà a dormire la notte. Non perché sia preoccupato, ma perché per me questo mondo è dotato di una tale forza di realtà, che non mi basta chiudere gli occhi perché scompaia. Si porta dietro una forte intensità di sensazioni. Se giro in un luogo splendido, io sento e vedo questo luogo in modo così violento che poi, quando rivedo quei posti, sono come tombe, completamente morti. Ci sono dei posti al mondo che sono per me dei cadaveri, e questo perché laggiù ho già girato: ai miei occhi sono completamente finiti. C’è una frase di jean Renoir, a questo proposito: dobbiamo ricordare agli uomini che un campo di grano dipinto da Van Gogh può essere più appassionante di un campo di grano vero. L’arte supera la realtà. Il film diventa un’altra realtà. Ho molta ammirazione per l’opera di Renoir. Per i suoi film, ho come una devozione, benché i miei gli piacciono poco. Siamo molto amici e mi dispiace che lui non ami i miei film per la stessa ragione che io amo i suoi. Quello che ammiro di più in un autore è la sensibilità autentica. La presenza di una sensibilità poetica reale. Non do importanza al fatto che il film sia riuscito o no tecnicamente: d’altra parte i film che mancano di questo genere di sensibilità non possono essere giudicati se non sul piano dell’utilità tecnica o estetica. Ma il cinema, quello vero, è espressione poetica. E Renoir è uno dei pochi poeti. Come Ford lo è nel suo stile. Ford è un poeta. Un paladino. Non delle donne, naturalmente, ma degli uomini.

  EJZENSTEJN


  Oltre a Ford e Renoir, quali sono gli altri cineasti che ammira?


 Sempre gli stessi. Credo su questo punto di non essere molto originale. Più di tutti mi piace Griffith. Penso che sia il miglior regista della storia del cinema. Il migliore, molto migliore di Ejzenstejn. E tuttavia ammiro molto Ejzenstejn.

  Di cosa parla la lettera che Ejzenstejn le ha inviato quando ancora non aveva debuttato nel cinema?

 
Di Ivan il terribile.


Se non sbaglio, lei ha detto che il film somigliava a uno di Michael Curtiz..

No. E successo che io ho scritto una critica di Iran il Terribile per un giornale e un giorno ho ricevuto una lettera di Ejzenstejn. Veniva dalla Russia ed era di quaranta pagine. Gli ho risposto, e da quel giorno diventammo amici per corrispondenza. Ma io non ho mai scritto niente che potesse far pensare a un parallelo fra lui e Curtiz. Non sarebbe stato giusto. Ivan il Terribile è il film peggiore di Ejzenstejn. In quell’occasione il suo dramma era prima di tutto politico. Non perché doveva raccontare una storia che non voleva raccontare, ma perché era un cineasta poco dotato nei film in costume. Penso che i Russi abbiano una forte tendenza a mostrarsi accademici quando parlano di un‘altra epoca. Diventano retorici, nel senso peggiore della parola.

 
Nei suoi film si ha la sensazione che lo spazio reale non sia mai tenuto in considerazione: sembra che non le interessi.



Il fatto che io non ne faccia uso, non significa assolutamente che non mi piace. Ci sono molti elementi del linguaggio cinematografico che trascuro, ma non è che abbia qualcosa contro di loro. Mi sembra che il campo d’azione in cui faccio le mie esperienze sia quello meno conosciuto. Questo non vuoI dire che sia il migliore o l’unico. Io credo che l’artista debba esplorare il suo mezzo d’espressione. In effetti il cinema, eccezion fatta per qualche nuovo trucchetto, non ha fatto progressi negli ultimi trent’anni. Gli unici cambiamenti si riferiscono al soggetto dei film. Ci sono dei registi di sicuro avvenire, sensibili, che esplorano temi nuovi, ma nessuno affronta la questione della forma, la maniera di dire le cose. Sembra che questo non interessi nessuno. Quanto a stile si rassomiglìano tutti.





LADY FROM SHANGHAI



Deve lavorare molto svelto. In venticinque anni ha fatto dieci film, ne ha interpretati una trentina, ha realizzato una serie di programmi molto lunghi per la televisione, ha recitato e diretto in teatro, ha fatto il commento per altri film e ha scritto trenta copioni. Ognuno di loro deve averla occupata più di sei mesi.


Anche di più. Per alcuni ci sono voluti due anni. Qualcuno invece l’ho scritto molto rapidamente.

 
Li scrive interamente, con i dialoghi?


Comincio sempre dal dialogo. Non capisco come si possa scrivere l’azione prima del dialogo. E una concezione molto strana. Solo in teoria la parola è secondaria nel cinema. Il segreto del mio lavoro è tutto nella parola. Non faccio del cinema muto. Devo cominciare da quel che dicono i personaggi. Devo sapere quel che dicono prima di vederli agire.

 
Eppure nei suoi film la parte visiva è essenziale.

 
Certamente, ma non potrei arrivarci senza la parola, l’unica base per costruire le immagini. Succede che dopo aver girato le immagini, le parole si offuschino. L’esempio più classico è Lady From Shanghai. La scena dell’acquario era così avvincente a vedersi, che nessuno capiva quanto veniva detto. Eppure in quelle parole c’era tutto il film. Ma il soggetto era così noioso che mi sono detto: Ci vuole qualcosa di bello da vedere. E senza dubbio, la scena era molto bella. Sono i primi dieci minuti del film che non mi piacciono affatto. Se ci ripenso, ho l’impressione di non essere stato io a farli. Potrebbero trovarsi in un qualsiasi film di Hollywood. La storia di Lady From Shanghai è nota. Stavo lavorando a quell’idea di teatro spettacolare, con  Il giro del mondo in 80 giorni , che all’inizio doveva essere prodotto da Mike Todd. Ma all’improvviso Todd rimase senza soldi, e io mi ritrovai a Boston, il giorno della “prima” senza i 50 mila dollari che ci volevano per i costumi. A quell’epoca ero già separato da Rita, non ci parlavamo neanche. Non avevo intezione di fare un film con lei. Da Boston ho chiesto di parlare con Harry Cohn, allora direttore della Columbia, che si trovava Hollywood e gli ho detto: ho una storia straordinaria per lei se m’invia entro un’o ra 50 mila dollari, in acconto sul contratto che firmerò per realizzarla. Cohn chiese: quale storia?. Stavo telefonando dal botteghino del teatro, accanto c’era una mensola con dei libri tascabili. Gli ho dato il titolo di uno di questi libri: “Lady From Sbanghai”. Gli ho detto: compri il romanzo e io farò il film. Un’ora dopo abbiamo ricevuto i soldi. In seguito ho letto il libro: era orribile. Così mi sono messo a scrivere, in tutta fretta, una storia. Arrivai ad Hollywood per girare il film con un preventivo molto basso e sei settimane di riprese. Avevo bisogno di altri soldi. Cohn mi chiese di girarlo con Rita. Lei mi rispose che le sarebbe piaciuto molto. Le feci capire che il suo personaggio era antipatico: era una assassina e questo avrebbe potuto nuocere alla sua immagine di star. Ma Rita si ostinò, voleva fare questo film. Così quello che doveva costare 35mila dollari, diventò un film da 2 milioni. Rita cooperò molto. Chi si spaventò nel vedere il film fu Cohn.
 
Come lavora con gli attori?


Do loro molta libertà e nello stesso tempo esigo molta precisione. E una strana combinazione. Nella maniera di muoversi, esigo la precisione di un ballerino ma il modo di recitare lo lascio alle loro idee personali. Quando la macchina da presa incomincia a girare, non improvviso sulle immagini: tutto è accuratamente preparato. Ciò non toglie che lavoro molto liberamente con gli attori: cerco di render loro la vita piacevole.


 
Tratto da: Cult Movie, marzo 1981

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