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Robert Bresson Maestro Dello “stile Riflessivo”
di Utente rimosso (mike patton) ultimo aggiornamento
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Robert Bresson Maestro Dello “stile Riflessivo”

C’è un’arte che tende direttamente a provocare sensazioni, e c’è un’arte che fa appello ai sensi passando per la strada dell’intelligenza. C’è un’arte che coinvolge, che crea empatia. E c’è un’arte che distacca, che produce riflessione.
Susan Sontag, Contro l’interpretazione



Nato nel 1901, dopo essersi laureato in lettere e filosofia a Parigi, Bresson esordisce nel cinema con, Les affaires publiques (Gli affari pubblici, 1934), un cortometraggio alla maniera di René Clair, mai uscito nelle sale, “che racconta tre giornate di un dittatore immaginario in un linguaggio definito dall'autore stesso burlesque. Delle poche copie, ritenute perse per sempre, una sola è stata recuperata ed è custodita a Parigi presso la Cinemateque Francaise.” (Wikipedia)
Il suo primo lungometraggio uscirà solo nove anni dopo, nel 1943, in piena occupazione tedesca: si tratta della Conversa di Belfort (Les anges du péché), un film ambientato nella congregazione di Béthanie, ordine domenicano dedito alla riabilitazione delle ex carcerarie e suore già redente, dove cioè, per dirla con parole di Bresson, “il male conviveva col bene”. Realizzato in collaborazione col padre Bruckberger e con Jean Giraudoux, si nota già in quest’opera un atteggiamento di totale distacco dalla realtà sociale e politica del momento, che sarà una costante del cinema a venire e una precisa, quasi geometrica applicazione di un formalismo mai fine a se stesso ma coerente con l’idea antipsicologistica del narrare per immagini.
Il film venne accolto con entusiasmo dalla critica ed ebbe un buon successo di pubblico.
Il soggetto del suo secondo film, iniziato nel 1944 e distribuito nel 1945, era una versione moderna di una storia raccontata da Denis Diderot (la vendetta di una gran dama che, per punire l’ex amante, lo induce a sposare una prostituta) nel classico anti-romanzo Jacques le fataliste. Bresson scrisse la sceneggiatura, Jean Cocteau i dialoghi. In Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne), questo il titolo del film, Bresson prosciuga il testo diderottiano da tutti i riferimenti libertini e le provocazioni ‘illuministiche’, con un’attenzione precipua alla condizione morale dei personaggi. Già nel precedente film, La conversa di Belfort, Bresson faceva dire alla madre superiora quale fosse la sua poetica: “Non esiste il caso in questo basso mondo. Esistono soltanto dei segni”
I film seguenti di Bresson chiariranno abbastanza bene le parole della suora, a cominciare soprattutto dal Diario di un curato di campagna (Le journal d’un curé de campagne, 1950), tratto dal romanzo di Georges Bernanos, nel quale molti personaggi sono eliminati per centrare il film quasi esclusivamente sul dramma interiore del curato. I motivi che nelle prime opere di Bresson apparivano ancora timidamente, cominciano a chiarirsi: bisogna cercare Dio attraverso i segni di cui ha disseminato l’inferno del mondo. L’immagine cinematografica dovrà dunque rendere nitidamente il senso di questa ricerca, affrancandola dagli elementi inutili, fuorvianti o spettacolari.
“Si crea”, dice Bresson, “non aggiungendo, ma levando”: scarna essenzialità dell’immagine, rapporti stretti tra immagine e suono, uso del dettaglio e dei tempi morti sono i tentativi di cogliere nel mondo la presenza del divino. 
Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’est échappé, 1956) è il capolavoro in cui Bresson il principio di elisione è portato all’estremo. La storia prende spunto da un fatto realmente accaduto, la fuga di un uomo dal carcere nazista di Montluc poco tempo prima che venisse eseguita la sentenza di morte. Ma nulla ci dice Bresson “del motivo per cui Fontaine è stato messo in prigione… Non c’è nessun intermezzo. Un interrogatorio finisce, la porta sbatte alle spalle di Jeanne e la scena sparisce in dissolvenza. La chiave gira nel lucchetto, un altro interrogatorio; ancora la porta che si chiude con fragore, dissolvenza di chiusura. È una costruzione molto distaccata, che impedisce qualsiasi partecipazione emotiva.” (Susan Sontag, ibidem). 
Se il Condannato è una delle più convinte dichiarazioni di fede nelle capacità umane, Pickpocket del 1959, ispirato a Delitto e castigo di Dostoevskij,  trasferisce la ricerca del film nel rapporto tra la volontà di liberazione e la costrizione sociale, di cui il furto arriva a costituire il momento dell’infrazione e il primo passo verso la liberazione. Questa dialettica tra esigenza individuale e coazione sociale costituisce anche il nucleo del Processo di Giovanna d’Arco (Procès de Jeanne d’Arc, 1962), in cui Giovanna, per non cedere alle pressioni della società, accetta di morire, illustrando quella legge secondo la quale, come dice lo stesso Bresson, “per vincere bisogna perdere fino al limite”. Se la fiducia in se stessi e nella grazia divina aveva caratterizzato più o meno i film di Bresson, almeno fino a Giovanna d’Arco, ora si accentua sempre più la consapèvolezza che il silenzio divino non è naturale ma è stato voluto dalla società, che strutturalmente impedisce di vedere al di là di se stessa, né permette alcuna azione liberatoria. Si opera così il passaggio, nella concezione bressoniana, dall’uomo che agisce per vedere all’impossibilità di agire e alla conseguente perdita della fede, in sé e in Dio.
Nascono così i toni disperati e crudeli di Au hasard Balthazar (Au hasard Balthazar, 1966), di Mouchette, tutta la vita in una notte (Mouchette, 1967), di Così bella, così dolce (Une femme douce, 1969), tratto da La mite di Dostoevskij, così come di Quattro notti di un sognatore (Quatre nuits d’un reveur, 1971), del bellissimo Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac, 1974), di Il diavolo, probabilmente (Le diable, probablement, 1977) L’Argent (1983).
 
Nell’arte riflessiva è presente in modo accentuato la “forma” dell’opera d’arte.
 
Cinema difficile, estremamente stilizzato, calato in interiore hominis – quello di Bresson “non ha mai attratto l’attenzione del pubblico che accorre ai film di Buñuel, Bergman, Fellini, sebbene egli sia un regista più importante; e persino Antonioni, in confronto a lui, è quasi un regista commerciale.” (Susan Sontag, ibidem)
Le parole della Sontag, scritte oltre quarant’anni fa, suonano ragionevoli:
Un regista più importante: Robert Bresson ha seminato lo stile interiore dove meno ci aspettavamo, a cominciare da Jean-Pierre Melville fino al contemporaneo cinema orientale – per imperscrutabili strade.  
 

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