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TARAS POISON CITY
di Utente rimosso (Marcello Del Cam ultimo aggiornamento
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Utente rimosso (Marcello Del Cam

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TARAS POISON CITY

Arsenale e porto militare e mercantile, Ilva, raffineria, cementificio, forse in futuro un rigassificatore. Un mare, anzi due, mortificati dalle industrie, aria irrespirabile, alta percentuale di tumori polmonari, strade sporche e dissestate, traffico di auto che strombazzano, inquinamento acustico, cassonetti vuoti al loro interno e montagnette di spazzatura all’esterno, grande sforzo premere il pedale per aprirli. Centro storico rovinato da interventi di restauro, cani randagi, escrementi sui marciapiedi, cinque o sei sale cinematografiche (prima dell’Italsider erano sedici), nessun teatro (erano tre), le rassegne teatrali le fanno in un cinema del centro ed è un problema a montare le scene, un lavoraccio per gli attrezzisti, devono modificarle a ogni rappresentazione. Ho dimenticato qualcosa? meglio così.

 
Bisognava aspettare un giovanissimo scrittore leccese (di Parabita), il venticinquenne Giuseppe Cristaldi, per leggere il miglior romanzo sulla città di Taranto. Giancarlo De Cataldo, Cosimo Argentina, Girolamo di Michele, partiti oltre venti anni fa, hanno preferito scrivere noir, romanzi esornativi ricchi di un’aneddotica popolare, cronache nere ma nessuno di loro si è misurato con i veri problemi della città.
 
Gli utenti mi perdoneranno questa lunga incursione provinciale, ma la città amara è solo un filo più amara di altre.  
 

BELLI DI PAPILLON VERSO IL SACRIFICIO di Giuseppe Cristaldi (Edizioni Controluce, 2010)
 
 
 
TRAMA
 
In una Taranto della mente, lontana dall’oleografia dei romanzieri locali, - transfughi e reduci (folklore, camorra e misteri della fede) - inferno tossico, vite di stenti - un ragazzo erige un monumento al padre morto. Cozzaro, contrabbandiere, corista, teatrante, uomo dalle mille risorse, Don Papà, come lo chiama il figlio, è uno della razza dei ddritti, nato e cresciuto nel quartiere Tamburi dove ha alimentato favole e racconti sulle proprie gesta. Spinto alla disperazione da un’ingiunzione di trasloco, l’uomo farà a pezzi, nel tempo di una notte frenetica, con l’aiuto del figlio, la casa, prima di compiere il suo ultimo capolavoro, un suicidio esemplare come estrema ingiuria verso i potenti e riaffermazione della vita fin dentro la morte, lasciando al ragazzo il compito di tradurre in una scrittura di rara potenza visionaria la vitavissuta.
 
APPUNTI
 
L’autore “ha scelto Taranto”, i personaggi della Taranto del mito, calandoli nella realtà della città attuale. Da quali fonti avrebbe tratto spunto, altrimenti, per descrivere il personaggio di don Papà, se non dalla mescolanza di elementi mitici, mettiamo il pitagorico Icco, medico e atleta, con quelli della gente del porto e del “ferro filato”, come si dice degli uomini che ingaggiavano duelli all’arma bianca tra i vicoli della Via di Mezzo, l’antica strada greca. A questa categoria di uomini appartiene don Papà, muscoli, cervello e tatuaggi. L’autore poteva scegliere Napoli, Roma, Genova, ma di quelle città si sa tutto, si sa anche che lì i sogni sono ancora possibili.
Taranto è al di là del sogno.
 
Taranto i sogni ci sono, sopravvivono, per carità! Ci fanno tutti uniti, a volte, sotto i nembi ingannevoli, come quando si prevede un’eclissi e il popolo racchiude tutta la propria attività, il proprio trambusto nello spazio spettacolare di due minuti. Fa bene pensare a un sogno, sia chiaro, ma ancor meglio è non accorgersi che quel sogno esecri te, proprio te che hai lottato per farlo nascere.
 
Taranto è il teatro degli aventi del romanzo di Giuseppe Cristaldi, ma oltre le cozze, la birra Raffo, il contrabbando di sigarette, è don Papà il protagonista indiscusso di una vicenda neo-realistica (pasoliniana meglio), scritta con un linguaggio desueto nei nostri tempi letterari, fatti di omologazione dei codici narrativi, un linguaggio che è un vero corpo a corpo con la pagina bianca. 
 
Malgrado sia cozzaro, so scrivere e lo so fare bene
 
Belli di papillon verso il sacrificio  è diviso in sedici capitoli intitolati “Martirio”: non c’è bisogno di molta fantasia per scoprire che questa suddivisione ricalca le stazioni della Via Crucis, quante sono quelle che accompagnano la vita del padre, i suoi miracoli laici (vedi il rene che si fa espiantare per donarlo all’amico malato), la sua vita di stenti tra eroismo e miseria (Dico miserie, miserie vere, di quelle che si fanno allucinazione negli occhi, che tu al posto dell’iride, in questi volti scavati dalla salsedine, ci vedi la scorza del pane duro avanzato in chissà quale maledetto e mai scordato pranzo nuziale), fino alla morte, che più che un suicidio pare il volo mitico di Icaro, in assoluto il punto più alto del romanzo (Mio padre s’è gettato dal quarto piano un mese fa, lo ha fatto di giorno alla faccia di chi non volesse più stupirsi, si è dato come il migliore degli aironi… Mio padre s’è gettato dal quarto piano un mese fa, però lo ha fatto dopo essersi cosparso di benzina, dopo essersi dato fuoco nel vuoto… Mio padre voleva emulare il sole, avvalendosi del suo corpo libero e del fuoco nella noia dell’aria sempre così miseramente uguale a se stessa.).
I capitoli-martirio che seguono - il funerale, il manifesto funebre (S’è voluto spegnere), la sepoltura del morto a piedi nudi (come racconta Ascanio Celestini dei soldati morti in guerra), la tumulazione, le condoglianze degli amici che esaltano la grandezza dell’estinto e la sua magnanimità - sono un’ulteriore conferma delle doti di questo straordinario narratore che passa con disinvolta bravura dal tragico, al grottesco, alla farsa. Non è facile nello spazio di una scheda di lettura offrire esempi, valga per tutti l’accorato peana del figlio cui segue la descrizione del morto come in un horror-movie e la discussione in famiglia su che cosa scrivere nell’annuncio mortuario.
Tensione, calo della tensione, sospensione, ripresa della tensione: questa è la modalità scelta dall’autore, una scelta di epica in forma di ballata tragico-farsesca.
La resurrezione di don Papà più che un ritorno alla vita è un trasferimento della propria vitavissuta nella persona del figlio, l’ultimo più prezioso dono: fare del figlio uno scrittore (“Mio padre, quel don Papà che ha dato il culo ai miei sfoghi di scrittore marinaio, … è la tua vita che sto comprimendo in un libro Scrivere non è una caduta nel vuoto, ma un vuoto colmato dal volo.”).
 
Taranto vive sopra gli eroi e le tombe. La città nuova, il borgo, in tempi antichi era la necropoli. La politica dissennata dei sovrintendenti archeologici ha occultato sotto strati di cemento centinaia di tombe a camera. La città nuova è tutta un cimitero sotterraneo, qui gli antichi seppellivano i morti. La vera città, Taras, è quella oltre il ponte, Taranto Vecchia, che dominava dall’acropoli il mare, diviso da un fossato che in età posteriore fu escavato per unire i due mari. Oltre la città vecchia, il rione Tamburi, la necropoli moderna: fumo dalle ciminiere dell’Ilva, case annerite, un agglomerato umano con la morte nel cuore e un possibile cancro ai polmoni. Taranto è la città delle sconfitte, a cominciare dal sacco dei romani che divelsero e portarono via come bottino di guerra - così narrano gli storici - la statua di Apollo, una delle meraviglie del mondo, per fonderla e ricavarne armi da guerra. La città non ha mai avuto una fisionomia precisa e stabile: Taranto greca, Taranto romana, Taranto saracena. Ogni conquistatore ne ha cambiato le connotazioni urbane. Dopo il piccone mussoliniano, la democrazia cristiana e l’Italsider hanno ridotto la città a un moderno cimitero.
Belli di papillon verso il sacrificio come recita il titolo del romanzo: un tempo locus amoenus delle vacanze romane, oggi Taranto è il locus coruleus che presiede al panico.
Forse per questo, l’autore ha scelto Taranto: la città che è oltre il postmoderno, la città postatomica che somiglia agli incubi di Benny Profane, la città che condivide i “misteri” del venerdì Santo con quelli di base americana privilegiata alla difesa del mare nostrum.
La Taranto del romanzo è, infatti, una città inesistente, inventata, frutto di una commistione ucronica di mitologie ed eventi reali, dai quali l’autore, quasi miracolosamente, fa scaturire il genius loci smarrito di una città senza memoria. La stessa operazione compie nel descrivere luoghi esistenti, mescolandoli a luoghi inesistenti o mai esistiti, oppure facendo confluire passato e presente in uno spazio temporale, anche questo ucronico, nel quale coesistono le case del popolo con il quartiere Croce, l’INA case con i moderni agglomerati, il comunista anni Cinquanta Camuso con i portuali albanesi, la pesca in mare con il contrabbando di sigarette, il funerale con la bara in spalla con il prete Celestino-don Camillo, la birra Raffo con “u’ padrune e sotte”.
L’espediente dell’ostranenje è ancora visibile nella scelta del modulo linguistico dialettale, che non è quello tarantino puro, ma un mélange di dialetti pugliesi con la prevalenza del dialetto salentino. Oppure di mettere in bocca a don Papà, uomo dalla cultura striminzita, frasi che nemmeno in Shakespeare o di attribuire alla madre, una popolana mansueta, una predilezione accorata per il pianismo sofisticato di Ludovico Einaudi o, infine, tanto per esemplificare, fare di un modesto prete il portavoce di una sintassi garbata e di un idioma forbito da teologo in cattedra.
Proprio in questa commistione è il fascino desueto del romanzo, desueto nel senso che l’autore demarca dai cliché della narrativa contemporanea, riallacciando i legami con i classici del Novecento con i quali la quasi totalità dei romanzieri ha troncato ogni legame per timore, questo sì, di non esserne all’altezza.
 
Belli di papillon verso il sacrificio  non è soltanto un romanzo sulla città di Taranto, l’unico che fa piazza pulita di tutta una letteratura localistica improntata ai saccenti di turno sulle deliciae tarantinae (cozze, taralli e misteri), è molto di più: romanzo di formazione, romanzo sui padri, su come e chi eravamo, su come siamo adesso sotto il cielo di nubi tossiche. Sprovincializza il linguaggio plastificato dai media, con una scrittura nervosa, espressionista, barocca nella quale l’urgenza di comunicare assurge a vera liturgia della parola.
 

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