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Adulto e volitivo: il cinema western secondo Budd Boetticher
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Adulto e volitivo: il cinema western secondo Budd Boetticher

Quello di Budd Boetticher è un nome fondamentale per la storia del cinema western. Alieno (o forse inviso) alle grandi produzioni, ci ha regalato una nutrita serie di opere imprescindibili (memorabili), essenziali e veloci, spoglie ma dense di contenuti, con uno stile asciutto e personalissimo che ne rende riconoscibilissima ogni singola inquadratura. Il caratteristico canovaccio di base del “genere” - che è poi quello dello scontro morale contrapposto  (il “bene” da una parte; il “male” dall’altra) – è, nel suo cinema, sempre rispettato, senza inutili fronzoli o abbellimenti: con lui si va diritti al nocciolo, proprio perché per Boetticher la drammaturgia (intesa come “struttura narrativa”) è molto più importante dell’etica, ed è per questo che tende, se mi passate il termine, a “schematizzare” un poco, più che i concetti, le situazioni, ma senza mai risultare ripetitivo per questo, e non è mai noioso o avaro di “pathos”, nonostante la scarsità dei mezzi a disposizione, che lo portano (costringono) a volte a “risparmiare” anche sugli esterni, una ragione di più per prediligere la linearità delle azioni, un principio che lo induce a “rispettare le regole” sempre e comunque, e a ridurre il più possibile, ricorrendoci solo in pochissime circostanze, agli improvvisi “scarti” inattesi dei colpi di scena inaspettati,  che per alcuni suoi colleghi servono principalmente per ravvivare il respiro troppo corto della storia e riaccendere nello spettatore un minimo di attenzione “assopita”. E nessuna tesi sottotraccia è ravvisabile, né ci sono sentori di alibi  ricattatori esposti con fare un predicatorio, a forzare la mano e a ingarbugliare i fili, per rendere più ridondante l’approccio.
Nelle sue interviste, il regista ha spesso insistito su un punto che è fondamentale per comprendere pienamente la sua poetica, asserendo che “ i suoi personaggi sono uomini liberi che liberamente hanno scelto il loro destino e cercano di conseguenza di assumersene la piena responsabilità”, un concetto quasi lapalissiano, visto che si parla di cinema western, ma non molto scontato in partenza, se si analizzano le arzigogolate procedure che spesso spingono in differenti direzioni molte altre opere, se non proprio di quel periodo, per lo meno di quello immediatamente successivo, dove si tende a far diventare il tutto più “lambiccato” e insolito. Forse è proprio per questo (le “idee chiare sono un elemento “ineludibile” che segnano in positivo le cose e i risultati) che i suoi western sono quasi tutti importanti (alcuni straordinari) con variazioni più o meno evidenti, ma che rimandano sempre proprio all’origine del genere, sintetizzabile in: “giustizia” e “legge”. Gli uomini e i loro “dilemmi” insomma che da sempre sono il fulcro dei conflitti e delle azioni (e in questo il suo narrare si avvicina molto al cinema di Hawks, anche se Boetticher sceglie procedure che risultano  essere  meno conflittuali e più “sbrigative”, così che tutto si sviluppi in maniera più semplice e naturale). La regia si limita infatti a raccontare con la necessaria chiarezza questo “intreccio di rapporti” (in genere il conflitto fra due uomini o due posizioni: le ragioni che lo originano sono sempre palesi - anche se talvolta ne rimango oscure le cause - ma non ci sono mai interferenze esterne di carattere storico, sociale o religioso a complicare le cose), a rappresentarne gli scontri e le lotte, senza però mai allontanarsi dall’essenziale, con lo scopo primario di definire i personaggi “non in rapporto ad una causa, ma in rapporto a quanto fanno per difenderla”
Attivo dalla fine degli anni ’40 (era nato a Chicago il 29 luglio del 1916) Boetticher darà il meglio di sé nel periodo compreso fra il 1956 e il 1960 che circoscrive molti dei titoli più leggendari della sua carriera (in precedenza la sua attività era stata un po’ più altalenante, e se anche in quella talvolta si può riconoscere perfettamente la mano dell’autore, alcune di quelle pellicole oggi possono tutt’al più sembrare semplici “bozze preparatorie” su cui esercitarsi per costruire poi le opere più importanti, un prendere confidenza con il mezzo, un “imparare a gestire la cinepresa” e a trovare il giusto equilibrio nella costruzione delle scene, perché se anche  il risultato appare talvolta mediocre, sono indiscutibilmente già rintracciabili i giusti sviluppo del ritmo,  quel gusto speciale per le ellissi che caratterizzano il suo incedere, una certa secchezza di costruzione che si riverbera nel montaggio, un humor sotterraneo e demistificante, e soprattutto quella sua peculiare prerogativa “emozionale” di ricondurre gli atti dei cattivi di turno proprio nell’alveo di quella scelta personale alla quale si accennava sopra, che è poi la caratteristica fondamentale  che ha il pregio proprio di umanizzare quelle azioni). Delle precedenti pellicole, forse il risultato più cospicuo e interessante, è rintracciabile in Seminole (1953) che narra un episodio canonico della guerra fra colonizzatori e indiani in maniera non del tutto cinvenzionale, per l’epoca.  Notevole per circa la metà del film, contiene una sequenza che potremmo definire quasi da antologia: illusisi di poter sorprendere gli indiani, i bianchi attaccano il villaggio, ma trovano solo manichini, comprendendo così di essere caduti in una trappola. Essi si raccoglieranno in silenzio, nella notte, sbigottiti e attoniti, nel silenzio rotto da strane grida di animali.
Si deve alle intuizioni di André Bazin (e glie ne dovremmo essere eternamente grati) la “scoperta” (e la rivelazione al mondo) di questo piccolo “genio” di nicchia che non è mai diventato famosissimo come avrebbe meritato, ma che si è conquistato nel tempo una fama crescente e una folta moltitudine in espansione di estimatori innamorati che sono riusciti a creare “il mito”.
Analizzando comunque criticamente nel dettaglio il suo lavoro, sono molti i fili conduttori che attraversano il suo percorso (e che vi si ritrovano, accomunando anche opere che si inseriscono in altri segmenti del cinema di genere, poiché  come è stato osservato  a suo tempo da eminenti studiosi del suo cinema, una delle chiavi di lettura che chiarisce l’analisi, è proprio quella che evidenzia nel regista il desiderio primario - perfettamente realizzato - “di voler rispettare i canoni del western, ma trattandoli formalmente secondo i canoni  del noir”. Si spiegano proprio in questo modo tutti quei personaggi “negativi” (i cosiddetti “assassini”) che permettono ad attori del calibro di  Richard Boone, Lee Martin o Claude Akins di tratteggiare bieche composizioni che non sfigurerebbero nemmeno se fossero inserite in un gangster movie degli anni quaranta. Non è che le storie  abbiano un vero e proprio carattere che si identifichi tout court nel poliziesco, ma ne sono vicinissime nell’andamento e nello stile, cosi come nel rifiuto dei risvolti pretenziosi, nella rapidità della narrazione, nel cinismo disincantato dei rapporti fra uomini e donne, nella geometria depurata di scenari e di paesaggi e anche, perché no? nell’eroe che invecchia (incarnato spesso da Randolph Scott, suo attore “feticcio”).
Un altro importante elemento da mettere in evidenza, soprattutto nei western della maturità, quelli più apprezzati e “compiuti”, è la forte valenza violenta, quasi truce, che li attraversa: le ferite sono sempre “sanguinanti” e profonde, le frecce si conficcano nelle teste senza risparmiare l’orrore dell’impatto, la sofferenza è sempre accentuata ai limiti dell’urlo. Questa violenza in espansione, rappresentava forse l’insorgere di qualcosa di latente che l’autore avrebbe impiegato parecchi anni a portare a completa maturazione, perché il lavoro davvero “compiuto” sotto questo profilo, il frutto definitivo  di questo viaggio amaro e pessimista, è rappresentato da un film davvero di molti anni successivo (che arriverà solo nel 1968) : A Time for Dying, è il titolo (che purtroppo credo non sia mai stato distribuito in Italia) e del quale di conseguenza è difficile persino valutarne il valore. Dobbiamo al riguardo “accontentarci” di conoscere dettagliatamente la storia giocando di immaginazione, ma è importante non omettere di ricordarlo, aiutati dalle parole e dalle valutazioni di chi lo ha visto davvero (fonte “Il western” a cura di Raymond Bellur – Feltrinelli edizioni) poiché altrimenti rimarrebbe per noi incompiuto il percorso di conoscenza dentro la sua storia e parziale il giudizio sui risultati raggiunti:
A Time for Dying narra la storia di due giovanissimi, ambientata nell’Ovest della seconda metà del secolo XIX. Lui, Cass, è un tiratore rapido, troppo schietto per essere il duro che vorrebbe. Lei, Nellie, è giunta a Silver City sulla scorta di un annuncio che richiede fioriste, prima di scoprire che la boutique di fiori è in realtà un bordello. Cass arriverà giusto in tempo per strapparla dalle mani della maîtresse, e tra due condanne a morte, il giudice li sposerà. Ma Nellie viene rapita dai banditi. Cass è costretto ad inseguirli  e, grazie al suo virtuosismo di tiratore, riesce a prevalere sui rapitori. Ma il momento in cui si celebra la sua vittoria, un emulo di Bill The Kid viene a sfidare il  trionfatore. Cass è ucciso nello scontro e Mamie la maîtresse, viene a sorreggere Nellie che singhiozza sul cadavere del marito e su se stessa perché comprende che non potrà più sfuggire alla resa dei conti, a quello che era e sarà di nuovo, “il suo destino.” Pochi western hanno una fine così amara ma che si integra a fondo nella logica della trama. L’Ovest è una terra infame e senza pietà., in cui il più piccolo momento di dolcezza non è che il preludio beffardo della sventura e della morte. Appena sposati, i due giovani si scontrano subito con la cruda visione degli ultimi sussulti di un impiccato. Le loro passeggiate sentimentali finiranno nel migliore dei casi ai piedi di una onnipresente forca o di un Jesse James, “buon principe di beffe crudeli”, quasi che il regista avesse definitivamente perduto ogni residua illusione di idealismo morale. Silver City diventa allora un luogo chiuso di un darwinismo demenziale dove è impossibile trovare un solo istante di pace. Tutti i consigli, tutte le minacce, hanno lo stesso segno. La debolezza - e la stessa innocenza - qui non trionfano mai. Il serpente la spunta sempre nei confronti del coniglio, che nella realtà, vedi ancora il pre-titolo di testa, non trova difensori né vinti. L’autore non nasconde di essere ossessionato dalla sorte di quei giovani dall’arma facile e che, d’età troppo tenera per essere davvero preparati alle rudezze e alle trappole della violenza, erano accecati dalla leggenda di Billy the Kid e spiati da una misera morte. Per queste vittime così poco dotate per il ruolo di carnefice o di giustiziere che vorrebbero incarnare, avverte una compassione lucida e precisa. Già in La valle dei Moicani e L’albero della vendetta, Skip Homeier e Richard Rust erano di questa razza senza speranza. Di questo universo chiuso, la regia boetticheriana adotta lo stesso respiro: il ritmo interno di falsa quiete sembra infranto dall’intrusione dell’orribile. La festa organizzata a casa di Roy Bean degenera in fretta in un baccanale mostruoso. L’indomani, lunghi piani classici e distesi seguono la cavalcata dei giovani sposi, ma immancabilmente per ricondurli in presenza della minaccia, dell’orrore, della vergogna o del ratto. Ma non ci si inganni, questo rincarare sul volgare  e sull’ignobile vuole prima di tutto essere un elemento di denuncia, perché Boetticher non si compiace, piange lacrime di rabbia sull’innocenza assassinata, poichè non può, a causa della sua intelligenza e sensibilità, vedere senza fremere di colera, la bassezza e la crudeltà  torcere il collo al romanticismo e alla bellezza. " (Louis Seguin)

Playlist film

I tre banditi

  • Western
  • USA
  • durata 78'

Titolo originale The Tall T

Regia di Budd Boetticher

Con Randolph Scott, Richard Boone, Maureen O'Sullivan, Arthur Hunnicut

I tre banditi

In streaming su Plex

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Qui il perdente non recrimina sulla sua sorte: è lui che ha scelto di giocare

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