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Bologna, 02.8.80
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Bologna, 02.8.80

La signora Angela tornava dal palazzo Biellotti, dove aveva da poco terminato di pulire il pianerottolo. Quel sabato sarebbe stato l’ultimo della stagione. Dal lunedì sarebbe andata in ferie. Meritate, come non ammetterlo. Povera crista, la signora Angela, che si faceva un mazzo tanto da vent’anni a pulir le case della borghesia provinciale. Quanti anni poteva avere? Cinquantacinque? Toh, a limite sessanta. Con quei capelli ricciolini, di un biondo autunnale, e la camminata stanca di quelle persone che si spaccano la schiena a lavar le scale a chiocciola di quei condomini alto borghesi. Si era tolta il camicione celeste che indossava ogni qualvolta lavorasse, ed era rimasta con una vestaglia lunga, smanicata, floreale. Faceva un caldo boia, quel sabato d’inizio agosto, ed era vano il vento che l’Angela si procurava agitando un vecchio numero di Oggi che si portava appresso da almeno due o tre mesi. Sempre il solito Oggi, rimasto nella borsa del lavoro come ancora di salvataggio nei momenti di noia in attesa del treno. Mica abitava a Bologna, la signora Angela. Se uno le chiedeva dove abitasse, però, lei rispondeva Bologna – mica poteva stare a precisare che viveva non proprio in centro. Era donna di poche parole, l’Angela. L’aveva capito Guido Terzi, settantacinque anni, ex militante del Pci cittadino. Il signor Terzi, che aveva fatto l’operaio per quarant’anni alla Fiat, stava in pensione da una decina. Il figlio erano anno che gli diceva: vieni con noi al mare, vienitene un po’ a Riccione, che te ne fai a casa in città tutto da solo per tutta l’estate! Ma Guido non era abituato a far vacanze, anche quando ancora lavorava non era solito spostarsi in zone marittime, più che altro per stanchezza. Preferiva dormire fino a tardi, poi sfogliare l’Unità, ascoltare un po’ la radio e andarsene in sezione, a giocare a carte e farsi due chiacchiere. Eppure c’erano mattine vuote, in cui non sapeva cosa inventarsi. Anche i compagni di partito più vegliardi si erano convinti, almeno per il weekend, a raggiungere i figli o i nipoti in località turistiche. Lui no, non ci riusciva. E allora se ne andava alla stazione, dove sperava di incontrare qualcuno, conoscere nuova gente e discutere di qualcosa. O meglio, Guido amava monologare, rievocare le due guerre che aveva vissuto e diffondere il messaggio di pace che tanto gli stava a cuore. Ma evidentemente l’Angela non aveva testa, almeno in quel momento, per star a sentire quel vecchio chiacchierone. Un sorrisetto, un cenno, ma nient’altro. Il Guido allora si era alzato e si era spostato verso una coppia di ragazzi accomodata a terra, con la schiena appoggiata al muro. Che fate?, domandò il vecchio, in cerca di nuove, piccole avventure. I due ragazzi aspettavano il treno per Milano, dove poi avrebbero l’aereo per atterrare quindi a New York. L’aereo?, si agitò Guido. Ma come, non l’avete visto che diavolo è successo ad Ustica, con l’aereo che cade giù senza motivo? Come veniva in mente a quei giovani di imbarcarsi su un veicolo del genere? I due ragazzi, un maschio e una femmina (piuttosto belli, di una bellezza che solo da giovani si può vantare), calmarono il vecchio e dissero lui che non c’era da temere, che viaggiare in aereo è meno pericoloso che viaggiare in auto e tutto il resto. Guido, che aveva una fiducia immensa verso i giovani, annuì e ammise che la sua era una paranoia da vecchio bacucco, che il mondo era andato avanti e lui era rimasto troppo indietro. Certo però che l’America mica poteva vederla il Terzi. Perché non fate una gita a Mosca? Perché non fate un salto tra i veri compagni? No, no, non se ne parlava. Ormai era tutto già organizzato. E poi a Mosca… ma chi se ne frega di Mosca! Ma come, il sol dell’avvenir!?, si meravigliò smarrito Guido. Dobbiamo dare la precedenza al futuro, altrimenti verremmo risucchiati dal passato, sputò disillusa lei. Guido fissò i due baldi giovani, che avevano tutta la vita davanti a differenza di lui, scosse un poco la testa e cominciò a camminare con le mani intrecciate dietro la schiena. Ecco, trovò qualcuno con cui parlare. Era l’avvocato Dionige, uno che difendeva quelli del sindacato, uno che ci credeva nella propria missione. Insomma, una persona seria. Si abbracciarono amichevolmente – si conoscevano da molti anni, nonostante l’avvocato avesse poco più di quarantacinque anni. Parlarono del più e del meno, perfino di Toto Cutugno, che quell’anno aveva vinto Sanremo, dell’ultimo film visto al cinema (Guido, in una sala semivuota, si era gustato “Apocalypse now” – con cui si era sorbito anche qualche minuto di sonno…), e alla fine toccarono ciò che stava a loro più a cuore. L’avvocato informò Guido che sarebbe intervenuto ad una Festa de l’Unità a fine mese. Verrà anche il segretario? Sì, forse verrà anche il compagno Berlinguer. Come mai l’hanno contattata, avvocato?, chiese Guido, per qualche incontro sul lavoro? No, rispose l’avvocato, per cercare di capire come mai in questo Paese non possa esistere uno straccio di verità su niente che abbia una qualche importanza. Alludeva ad Ustica, a quella assurda e terribile vicenda di cui non si conosceva praticamente nulla. Noi abbiamo visto la Storia, quel 27 giugno, affermò con lucida amarezza Guido, vediamo quando farà i conti con se stessa. Erano le dieci e venticinque. Dopo averla vista, Guido e l’avvocato entrarono nella Storia. Nel modo più tragico.

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