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Gioisci dunque, o vivente.
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Gioisci dunque, o vivente.

Invece di uscire, gioisci. Si sparla tanto della crisi del cinema, aria tra i denti nel definire colpe con la precisione di un boia libero professionista. Mi sto chiedendo con sempre più stupore se la crisi non sia dello spettatore, piuttosto che del cinema in sé. Il cinema, per potersi fregiare di tale romantica denominazione, deve avere uno schermo sul quale venga proiettata l’opera filmica e uno spettatore che possa essere testimone attivo del compimento del miracolo. Attivo, aggettivo che nell’epoca della televisione assume connotazioni sempre più sfumate, nebbiose, ipotetiche. Lo spettatore televisivo è attivo? Solo quando cambia canale agendo sul telecomando, quando sgranocchia merendine mentre un osso si trasforma in astronave, quando si alza per pisciare durante la pubblicità, quando lo zapping selvaggio lo proietta verso lo sgranare rosari di canali, ognuno dei quali è sempre meno interessante del prossimo che andrà a digitare. Nell’epoca della massificazione la libertà di avere migliaia di possibilità a disposizione ha trasformato i fruitori intelligenti in opportunisti in cerca dell’immediato appagante. Lo spettatore cinematografico, quello che nel buio della sala condivide le emozioni con altre decine di persone e assiste al film in una sorta di mistico rito collettivo che ha qualcosa di religioso, è attivo perché interpreta il film e lo trasforma da opera oggettiva (le immagini sullo schermo) in esperienza estremamente soggettiva, carica della propria cultura, della propria immaginazione, delle proprie esperienze mediante le quali attribuisce al film un valore etico, artistico, emotivo, senza i quali l’opera filmica non avrebbe ragione di esistere. L’opera critica che spesso lo spettatore cinematografico è inconsciamente costretto a fare, è uno sforzo cognitivo non indifferente di identificazione con la storia alla quale assiste e sulla quale investe molto del proprio essere, mettendo alla prova la propria conoscenza o una sfida alle proprie convinzioni, un completo mettersi in gioco attraverso l’affabulazione immaginifica dell’opera e il motore che consente questo transfert: il patto di finzione. E’ in breve, un atto di crescita culturale enorme, profondamente appagante e totalmente coinvolgente attraverso un mezzo, il cinema, che ha il pregio di stampo di essere anche e soprattutto divertente. Dopo il film, l’incantesimo si spezza, il patto di finzione si risolve e si torna ad essere sé stessi, solo un po’ meglio. Non importa il tipo di film, il genere, non importa che sia piaciuto o meno, poiché il processo critico che innesca il gradimento o meno dell’opera o il fatto di riconoscerla in un determinato ambito o corrente artistica, adempie perfettamente allo scopo per cui, nel buio della sala, senza altri suoni che non siano quelli della pellicola, sovrastato dallo schermo che riempie tutta la visuale, per un po’ si è altro. Tutte cose che nell’ambito domestico, di fronte al plasma a 200 canali, col telefonino che squilla, l’ambulanza che passa, i bisogni fisiologici primari ( pipì, cacca, fame, sete, sonno), commerciali (Nuvenia Pocket; Ferrero Rocher; lava più bianco), famigliari (il piccolo che strilla, i piatti da lavare) concorrenziali (la partita sul 134° canale), smagriscono il significato cinematografico tanto da oggettivizzarlo a mero scorrere di immagini, azzerando di fatto quel patto di finzione che permette l’identificazione piena col soggetto filmico, trasformando la profondità dell’opera in tempo da incastonare tra mille altre attività. Tempo che sarà scandito da ritmi legati all’impellente realtà circostante poiché soggetta all’insindacabile giudizio del telecomando e del suo spietato dio che in casa propria, in mutande sul divano, è profondamente sé stesso. Gioisci dunque o vivente. You, the living, film dello svedese Roy Andersson, aveva questa frase come sottotitolo. Il film è costruito su scene a camera fissa, come fossero quadri, in cui viene messa in scena in maniera a volte grottesca, a volte comica, a volte triste, l’esistenza dell’uomo che attende la morte, rappresentata da bombardieri in volo sulla città. Un film strano, denso di riferimenti teatrali (Beckett), straordinario per il cromatismo surreale delle scene, onirico e tutt’altro che stupido. Un film corto come ce ne sono sempre meno, lento nell’incedere ma senza esasperazione. Il 15% degli spettatori è comunque uscito dal cinema durante la proiezione. Uscire dal cinema. Ripensandoci è un atteggiamento che avverto sempre di più, che ho già visto, ho già subito. E ho già visto e subito nelle sale d’essai, non al multisala tanto vituperato e comunque non da parte di ragazzini neurotossici muccinopositivi che vanno al multiplex invece di andare a vedere il film, esattamente come guardano la televisione invece di guardare un programma, e comunque il film lo gustano intervallandolo con SMS e pop corn. La crisi dello spettatore coincide evidentemente con la crisi del cinema, se da un lato il cinema mainstream monta e produce spettacoli che siano funzionali alla commercializzazione di tutta una serie di strutture, facendo sì che la sala cinematografica sia un pretesto per portare la gente in un posto in cui spenderà denaro, il suo opposto, la sala d’essai, preposta a fare cultura, perde spettatori per stanchezza. Uscire durante la proiezione e andarsene poiché il film non piace è un segnale di resa inequivocabile, un segnale di fatica intellettuale, di insofferenza. Andarsene significa spezzare quel patto di finzione che contraddistingue il fruire del film in sala, tornare alla coscienza più urgente dell’utilitaristica economia del tempo, significa che l’affabulazione cinematografica non ha fatto presa. Si fa fatica ad avere pazienza, ad accettare altri ritmi e conoscere altri linguaggi, una fatica che forse si è sempre meno disposti a fare, fermi nelle sostanziali convinzioni delle certezze acquisite. Quello che mi dispiace profondamente è che chi esce durante un film non accetta una visione diversa da ciò che si aspetta, trasformando l’esperienza cinematografica in un esercizio di consolidamento del proprio gusto, quello più superficiale, televisivo, delle date immagini che devono scorrere e risolversi in un dato tempo, scandito dai ritmi che nella quotidianità vengono dalla meta-cultura dello spot veicolo di informazione, dei consigli in pillole ad applicazione standard, delle notizie flash dei chi/come senza perché, dei pasti pronti da inghiottire senza gustare. L’anticultura della fuga dalla sala è non riconoscere più al cinema quella funzione di veicolo di conoscenza che invece lo connota, azzerandone i canoni a mero didascalismo le immagini si piegano al servizio dello spettatore senza colpo ferire e smettono di fungere da leva per le pulsioni più profonde, senza stimolare interesse o provocazione alcuna. E’ un errore, poiché il cinema perde quella controparte critica che ne rende possibile l’esistenza, trasformando il divertente inteso come stimolo intellettuale in medio intrattenimento, l’opera d’arte in prodotto, il giudizio critico in incassi/settimana. Non so identificare colpe specifiche per una crisi di questo tipo se non una sopraffazione generalizzata della cultura di massa e globalizzata che rassicura fornendo la soluzione per una vita il più comprensibile possibile ma tende ad appiattire il tutto sotto forma di media spacciata per norma, nella sistematica emarginazione delle cuspidi di eccellenza e nella salvaguardia del mediocre visto come consumatore ideale. Così è il cinema ora, diviso tra intrattenimento simil-televisivo e opere cinematografiche i cui fruitori di riferimento schiantati da una vita media e falsamente rassicurante, cedono. Si cede per stanchezza, si esce per sfinimento, piuttosto che investire emotivamente in qualcosa che non si capisce, che possa turbare un equilibrio faticosamente acquisito, piuttosto che discuterlo e prenderlo a esempio per crescere intellettualmente, si preferisce non vedere, fare come se non esistesse, così impegnati a sopravvivere a noi stessi, forse, il lasciarsi andare per essere qualcosa di diverso è perdersi temendo di non tornare. Paradossalmente You, the living, il film di Roy Andersson, parlava di questo, di infelicità sostanzialmente. Gioisci dunque o vivente, al cinema, mentre qualcuno invece, usciva.

Playlist film

You, the Living

  • Commedia
  • Svezia, Francia, Germania, Danimarca, Norvegia
  • durata 95'

Titolo originale Du levande

Regia di Roy Andersson

Con Jessica Lundberg, Elisabeth Helander, Björn Englund, Ollie Olson, Kemal Sener

You, the Living

In streaming su Rakuten TV

vedi tutti

Una cicciona con in testa un lucente elmo dell'esercito prussiano, completamente nuda cavalca un magrissimo partner che parla, a camera fissa parla del fallimento dei suoi fondi pensione.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Gli amori di Astrea e Celadon

  • Commedia
  • Spagna, Italia, Francia
  • durata 109'

Titolo originale Les amours d'Astrée et de Céladon

Regia di Eric Rohmer

Con Andy Gillet, Stéphanie de Crayencour, Cécile Cassel, Véronique Reymond

Gli amori di Astrea e Celadon

In streaming su Rai Play

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Un menestrello canta una canzone medieval cortese a una coppia di innamorati. Doppiato malissimo, con le rime sghembe e con qualche stonatura. Intellettualtrash.

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No
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