I luoghi della mente vanno ad incontrarsi, sfiorarsi, incastrarsi tra loro e poi ritrarsi per indietreggiare e tornare al punto di partenza, muovendosi in spazi sempre più ristretti, contornati da rossastre tonalità diffuse che con il loro calore cromatico riaccendono per interposta persona il freddo estinto delle passioni, fino ad esplodere coercitivamente in un delirio visionario al tempo stesso corporeo ed extra-corporeo, tentativo di coniugare la fuga all’interno del proprio io arrembante con quella puramente concepita come un vero e proprio salto nell’ignoto, un ignoto dalle infinite dimensioni di una stanza dove la sfera del ricordo si espande a vista d’occhio fino a perdersi letteralmente in sé stessa.
L’astronave galleggia con lentezza in un oceano digitalizzato dove l’astrazione è ricondotta alla sua stringente primordialità di contenuto ma vana è la fuga nel regno di questo ipotetico futuro improvvisamente imbevuto di re(azioni) differite. La materialità corporea estranea alla forza dei sentimenti ed investita dal peso di emozioni inibite a menti androidi scarica all’interno di sé i propri meccanismi adrenalinici consegnandosi ad un eterno immobilismo che prelude ad una perenne reiterazione del ricordo, ovvero del viaggio.
Incontri volatili, sporadici, casuali, nel sinuoso fruscio di abiti di seta che inguainano fascinose presenze colte a sfiorare la scena, attraversandola con la sinuosità sorniona di chi si rassegna con garbo e comprensione alla propria funzione svolta per interposta chimera. Caste dive affogate nelle luminescenti colorazioni del neon che generano un’atmosfera di decadente intimità nell’ambiente circostante, a dare forma a volte ad una recerche visiva simil-proustiana elaborata in chiave di nostalgica “allucinarietà”, dove l’edonismo estetizzante dell’autore si concretizza con una specie di dannunzianesimo post litteram del suo alter ego vagante per le chiare selve della seduzione.
Wong Kar-wai costruisce nelle sue opere un mondo a propria immagine e somiglianza, pervaso da irrimediabili scadenze, così negli oggetti come negli esseri umani, lacerato a volte dai malesseri notturni di una metropoli protesa in sotterranei, ferali fermenti, dove la morte non manca di farsi largo a passo danzante tra futuristiche spatolate di fantasmatici corpi e sussulti spasmodici di vagoni metropolitani dai rapidi e concisi movimenti.
La ricorrente tangibilità di corpi dediti a consapevoli presenze(assenze) vale a placare e raffreddare i vaghi sussulti d’introspettivo desiderio, riportando il tutto a sognanti fantasticherie ad alto volume di vagheggiate Californie a portata d’aereo.
Labirintiche, stravolgenti prospettive metropolitane che invadono la grezza materia con la loro debordante plasticità. Languori notturnali scandagliati e vivisezionati impietosamente, frugati senza posa in tutti i loro più intimi recessi.
Fugaci volute di fumo che si librano nell’aria cui è affidato il compito di assecondare un canovaccio dettato dall’ambiguità dei sensi irrealizzati e dalla cristallizzazione di passioni portate timidamente allo scoperto.
Un viaggio? Un racconto? Un delirio visionario? Probabilmente un itinerario di una mente eterna vagabonda in direzione dei propri ricordi perduti, alla ricerca di quel non luogo dove il mutabile si tramuta in immutabile.
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