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Alice nelle città

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Alice nelle città

di Aquilant
8 stelle

Rannicchiato accanto al pilone di un pontile Felix documenta la desolazione dell’esistenza con una Polaroid nel suo ennesimo tentativo di bloccare la realtà contingente, immortalandone gli oggetti nella fissità dell’immagine per consacrarli ad un’ipotetica eternità. Sagome indistinte scorrono continuamente davanti ai suoi occhi. Il loro continuo divenire finisce per distrarlo, confonderlo, sottrarlo al suo ruolo di giornalista dimostrandogli la non riproducibilità del reale visto come un continuo flusso spazio-temporale che non si arresta neanche per una frazione di secondo. Qual’è dunque il vero volto della realtà? Quello che scorre continuamente davanti ai suoi occhi? In tal caso dopo qualche secondo la fotografia avrà lo stesso valore della carta straccia. Allo stesso modo Felix è totalmente incapace di scrivere una storia, conscio dell’impossibilità di tradurre con opportune parole il (meta)linguaggio del reale visto come un qualcosa che non si può rendere in alcun modo, essendo privo dell’oggettività richiesta dalla situazione. Ed il potere delle parole è poca cosa di fronte all’evidenza, un qualcosa di fittizio che appena messo sulla carta perde tutto il suo significato. Sotto i suoi occhi si susseguono stazioni di rifornimento Texaco, apparati industriali, autobotti, distributori di Coca (Cola), automobili, testimonianze di un’america intesa come vessillifera di un benessere idealizzato con insistenza dai mass media, come modello di vita e come dispensatrice ininterrotta di benessere USA e getta. L’uomo è consapevole del suo fallimento ma gli scatti si susseguono nervosamente, vanamente finalizzati a frugare nelle più nascoste pieghe del reale, quasi ad attribuire valori inesistenti agli oggetti. Ma una bicicletta rimane pur sempre una bicicletta ed un paesaggio non è che un semplice paesaggio in virtù di un’evidenza del reale che nega qualsiasi significato simbolico all’immagine. Ed il concretizzarsi di una conoscenza fenomenica non può essere pienamente colta tramite apparecchiature meccaniche in quanto sfuggente persino a sé stessa. Ma oramai l’identità di Felix è smarrita, a nulla gli è servito rivisitare tutta l’America in lungo ed in largo alla ricerca di continue prove della propria esistenza aleatoria, trascinando le sue esperienze alla stregua di vetri fragili, scattando foto in continuazione in un logorante confronto con l’esterno, testimoniato da un viaggio inteso come conoscenza, come creazione di rapporti interpersonali, come pretesto per alleviare la pesante incombenza del reale tramite il medium dell’idealizzata figura di Alice colta nell’atto di osservare una serie di autoritratti, sorridente nella falsa consapevolezza di aver afferrato l’inafferrabile. Innumerevoli simboli di comunicazione di massa sono inseriti dal regista nelle pieghe dei fotogrammi del film: radio, televisione, giradischi, juke-box, flipper: tutto fa brodo pur di rendere ancora più proibitiva la già soffocante esistenza umana. Continue interruzioni pubblicitarie fanno sì che alla fine le immagini trasmesse dalla tivù diventino inconsistenti, dirette solamente a tormentare l’individuo ed il frastuono di un televisore scagliato a terra e ridotto in frantumi è quanto di più dolce ci si possa aspettare da un rumore che rompe all’improvviso il silenzio. “Alice nelle città” è dunque da considerare un vero e proprio road movie dell’anima, un peregrinare ininterrotto alla ricerca della purezza (americana) di un sogno inesistente, un itinerario a ritroso per riscoprire fallaci radici culturali che una massiccia penetrazione post-bellica nell’entroterra germanico ha effettuato a spese di un popolo ridotto allo stremo da una guerra disgregante e desideroso di risorgere sulle sue ceneri tramite l’illusoria assunzione di usi e costumi d’oltreoceano mediaticamente idealizzati a tamburo battente. E soprattutto un desolato squarcio di vita reso in una totale antitesi rispetto agli schemi narrativi consacrati dalla più vieta tradizione oltreoceanica, noncurante d’ogni linearità e consequenzialità, in un parziale abbandono d’ogni organicità semantica a favore di una maggiore ricerca di fedeltà del reale. Wenders fa emergere in superficie le viscere putrefatte di un mito che non si è mai esentato dall’obbligo di turbare i suoi personali sogni giovanili nell’offrirgli l’illusione di un’utopia destabilizzante intesa come prevaricazione dell’individuo e sintonizzandolo su una diversa lunghezza d’onda rispetto all’io vagante a vuoto nelle pieghe della propria interiorità. Riluttante a seguire un qualsivoglia schema collaudato dalla tradizione, il regista si affida di momento in momento al suo estro personale ed alla perizia degli interpreti, dando vita ad una vicenda costituita più di vuoti (a perdere) che di pieni, offrendosi al gusto di un’introspezione non vincolata dalle ferree regole della sceneggiatura, concedendosi tutto lo spazio possibile ed immaginabile nell’esprimere la personalità di un adulto e di una bambina tale soltanto nell’aspetto esteriore ma che già agisce e ragiona da ragazza matura, simbolo di una nuova donna tedesca assolutamente esente da influssi esterni che traggono la loro forza dalle fonti del mito. Dialoghi in apparenza convenzionali, sporadiche frasi buttate qua e là in modo del tutto estemporaneo, sguardi annoiati su un mondo di prostrazione urbana, ogni minimo dettaglio concorre a rimescolare e rivitalizzare la materia palpitante che freme, strepita ed urla al mondo la sua (non)esistenza. Cinema di autodistruzione e ricostruzione, di docce fredde e di roghi purificatori. Cinema dal tessuto prettamente materico, fatto di stridori di metropolitane, di sbuffare di treni, di rombi di motori, di ansimare di camion, di gracchiare radiotelevisivo, di ticchettare di macchine da scrivere, di jukeboxing Canned Heat “on the road again”, di rockeggianti Chuck Berry contrapposti ai silenzi di case vuote dalla parvenza di tombe mentre paiono aleggiare distintamente nell’atmosfera versi profetici di T.S.Eliot come vere e proprie lame: “let us go then, you and I, when the evening is spread out against the sky like a patient etherised upon a table; let us go, trough certain half-deserted streets.......”.

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