Regia di Dick Richards vedi scheda film
Viaggio di formazione verso la disillusione totale, in una rilettura antiepica e antieroica del western (primi anni settanta, revisionismo del genere, iperrealismo), in cui i personaggi, spogliati di qualsiasi aura mitica, vengono ripresi nella realtà dell’epoca (1866, con qualche anacronismo), tra bestiame, sudore, sangue e sporcizia, circondati da un ambiente selvaggio, durante le traversate con le mandrie e da una violenza insita nell’esistenza stessa, vivere e morire fanno porte dell’ordine quotidiano delle cose e la loro scelta è decisa solo da chi riesce a sparare per primo.
La figura del cowboy è quindi quella di un semplice lavoratore, sottopagato, alle prese con furti e rapine, da cui deve salvaguardarsi e difendersi, a volte uccidendo (senza scrupoli morali), altre cercando di riprendersi con la forza ciò che gli è stato sottratto.
Una pellicola polverosa, accompagnata da una musica folk/country, con una regia sicura e curata (Dick Richards), attenta agli individui quanto ai paesaggi, una fotografia sgranata, che tende al seppia e un montaggio incalzante, nei momenti in cui l’azione si intensifica.
La terra ha valore, il bestiame ha valore, la vita umana è solo merce di scambio per la difesa di una proprietà altrui, anche la religione perde qualsiasi sacralità per diventare fanatismo di gruppo, allucinazione collettiva. Del sacrifico svanisce il suo potere catartico, divenendo così suicidio o l’ennesimo illusorio tentativo di manifestare un diritto alla libertà ormai scomparso o forse mai esistito.
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