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Lo stato delle cose

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Lo stato delle cose

di supadany
8 stelle

Cinema nel cinema per questo “viaggio” di Wim Wenders tra Europa (occidentale) e Stati Uniti (quella Los Angeles mecca storica del cinema a stelle e striscie) all’inseguimento del suo alterego filmico impegnato a salvare un’opera che rischia di rimanese incompleta.

Portogallo, in una località fatiscente non troppo lontana da Lisbona, e con sbocco sull’oceano, Friedrich (Patrick Bauchau) sta girando con la sua troupe un b-movie di fantascienza in bianco e nero.

Le riprese improvvisamente si devono interrompere, la troupe europea deve aspettare buone nuove, e tanti metri di pellicola dalla produzione americana, ma tutto tace.

Così Friedrich decide di andare a scovare il latente produttore Gordon (Allen Goorwitz) per capire come portare a termine la sua undicesima opera e perché tutto si è arenato.

Si parte da dentro il film, riprese che ci giungono da un futuro impervio alla quale l’ottima ambientazione scelta, e questo vale anche in seguito per fornire il senso di stasi a tutta la prima fase portoghese del film (l’oceano, un hotel fatiscente, una piscina vuota, solo natura intorno), fornisce una più che valida sponda.

Poi arriva il tempo dell’attesa, un cast fermo aspettando quegli sviluppi che invece proprio non arrivano, qualcuno che prende l’iniziativa, i più che perdono la speranza, un lungo periodo, probabilmente fin troppo dilazionato, nel quale la vicenda vive anche di rapporti consolidati o estemporanei non sempre vitali ed essenziali per la genesi del film.

E’ invece la parte “made in America” quella nella quale non si spreca, per compendio sotto tutti i punti di vista, un metro di pellicola, uno sguardo diverso su un mondo lontano, per certi versi incomprensibile, e modi di fare diammetralmente opposti che trovano il loro culmine esplicativo nell’incontro, tanto agoniato, tra Friedrich e il suo produttore che ormai è costretto a nascondersi su di un camper per salvarsi la pelle.

Un incontro tra la passione dell’arte e il business, che non passa mai di moda, con lo sfottò per la scelta dell’utilizzo del bianco e nero (“solo le zebre lo usano ancora”), un viaggio nella notte che porta ad un epilogo degno di menzione d’onore nel quale resta indimenticabile il movimento istintivo di Friedrich che dopo il primo sparo punta la cinepresa come se fosse un’arma da fuoco.

Un film che vanta dunque una prima (lunga) parte troppo lontana dall’essere essenziale ed una seconda, peraltro molto più racchiusa a livello di minutaggio, semplicemente strepitosa per un risultato complessivo più che buono, sarà anche che il finale è notoriamente chiave di volta dei ricordi e che in questo caso ci troviamo a livelli di qualità altissima.

Emblematico. 

Su Wim Wenders

Strepitoso nella trasferta americana, dove evidentemente si leva qualche sassolino dalla scarpa, meno risoluto nella prima parte nella quale comunque riesce a immortalare alcune riprese molto belle e significative.

Su Patrick Bauchau

Aderente alterego wendersiano.
Meticoloso.

Su Samuel Fuller

Ruolo (cura la fotografia del film nel film) che gli calza a pennello.
Realisitico.

Su Allen Goorwitz

Bravo a risultare viscido e inutilmente materialista.

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