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Lo stato delle cose

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Lo stato delle cose

di maldoror
8 stelle

Mi riallaccio al discorso fatto da HAL 900 qui a fianco, a proposito della necessità per il cinema di una visione, più che di una storia. Il succo del film viene infatti condensato nel dialogo finale fra il regista tedesco e il produttore americano, in cui vengono messe a confronto due concezioni, due modi di fare cinema, quello europeo e quello americano.
Il produttore rimprovera al regista di essersi imbarcato nella realizzazione del film senza un soggetto, una storia, e lui gli risponde che non è necessaria una storia per fare un film, ma che siano sufficienti già le "geometrie", "gli spazi che si vengono a creare naturalmente fra i personaggi", così come le storie sono già presenti nella vita quotidiana, in quanto ognuno possiede la sua storia, anzi ognuno E' la propria storia, come viene detto anche in Nel corso del tempo, di cui questo film riprende le tematiche principali. Creare un soggetto significa pertanto distruggere questi spazi, queste geometrie naturali per comprimerle, condensarle, e quindi avvicinarsi alla morte.
Ecco perchè all'inizio il film si interrompe, per dare la possibilità a Wenders di passare dalla narrazione "compressa" e fasulla della dimensione finzionale, alla "spazialità" pura e libera della vita, dei rapporti fra i personaggi, per concentrarsi sulla vita e sulle storie reali delle singole persone e mostrare come basti adagiarsi su di esse per fare del cinema, cioè per dar luogo a una Visione (l'attore che racconta delle varie malattie che lo hanno perseguitato durante l'infanzia, e la bambina che lo ascolta ridendo come se si trattasse di un film, con la macchina da presa che segue la "narrazione" delle sue sventure con una carrellata laterale come fosse appunto la scena di un film).
Il produttore rimprovera inoltre al regista di aver usato il bianco e nero in un'epoca in cui ormai più nessuno lo avrebbe usato, e il bianco e nero in Wenders è sempre un mezzo per catturare l'essenza della realtà, per sublimare la realtà nella purezza dell'immagine anzichè adeguarsi su di essa riproducendone solamente la superficie, in quanto la realtà sarebbe essenzialmente determinata dal chiaroscuro, da ombre e luce ("la realtà è a colori ma il bianco e nero è più realistico", come dirà l'aiuto regista interpretato da Samuel Fuller), a ulteriore conferma del fatto che il cinema europeo si concentri sulla visione, sull'immagine e il suo senso, anzichè subordinare l'immagine alla narrazione e alle esigenze dello spettacolo come fa quello americano.
Dunque, tutta la prima parte del film, quella ambientata in Portogallo, è caratterizzata dal primato dell'immagine e della visione, cioè dal bianco e nero e da una spazialità pura, definita dalle architetture a cui viene affidato il compito di strutturare lo spazio in maniera astratta, definendo così le pure geometrie, i puri spazi fra i personaggi, già sufficienti di per sè a far scaturire la visione (notevole tra l'altro la bellezza metafisica e astratta delle immagini, nonchè la fotografia porosa che sembra voler riprodurre appunto la dimensione fluida e dilatata della vita). Alla staticità della prima parte, quella europea, si contrappone la seconda, ambientata in America e definita invece dalla temporalità, svolgendosi quasi tutta sulla roulotte in movimento del produttore, che ricorda quella di Nel corso del tempo, dai finestrini della quale vediamo scorrere il solito paesaggio americano tutto uguale a sè stesso. Il finale ribadisce la potenza dell'immagine e la sua capacità di catturare l'essenza del reale e delle persone, la Verità che vi si cela dietro, motivo per cui quando il regista aziona la cinepresa il produttore e il suo compagno di viaggio si ribellano con veemenza mostrandosi impauriti e indifesi.

Personalmente non credo di condividere il punto di vista di Wenders: credo che non esista un'essenza della realtà, e che quindi ridurre quest'ultima alla dualità del bianco e nero, dell'ombra e della luce, sia semplicemente un'illusione dialettica, così come ho anche qualche dubbio sul fatto che l'immagine possa davvero catturare l'invisibile, che forse costituisce la nostra realtà più di quanto ciò che si vede (si pensi a Blow up di Antonioni, amico di Wenders tra l'altro). Sarà forse per questo che con Il cielo sopra Berlino Wenders abbia deciso di fare il percorso inverso, dal metafisico al fisico, dall'essenza all'apparenza, dal bianco e nero al colore?

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