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L'inquilino del terzo piano

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su L'inquilino del terzo piano

di OGM
8 stelle

Roman Polanski sposta l’incubo ad occhi aperti dall’ambito psicanalitico a quello sociologico, sostituendo, al tempo stesso, il suo tradizionale carattere horror con una connotazione artistica surreale, di stampo pittorico e teatrale. In questo film, due temi classici della cinematografia - i tormentati rapporti condominiali e la diffidenza nei confronti dello straniero - si uniscono per ricordarci come l’avversione per il prossimo derivi molto spesso da una forma irrazionale ed infondata di ostilità reciproca, che nasce quasi sempre come antipatia riflessa (io ti detesto perché mi pare che tu ce l’abbia con me). A dominare le relazioni tra estranei è una regola perversa e sbrigativa, in base a cui ciò che non risulta immediatamente comprensibile diventa subito sospetto. Il protagonista di questa vicenda non capisce la vita del caseggiato in cui ha preso in affitto un appartamento; ciò lo induce a porsi domande e a dubitare, il che lo rende, a sua volta, agli occhi dei vicini, un elemento enigmatico e degno di attenzione. In questo modo egli scambia per  complotto quello che è solo un interessamento preoccupato, rivolto, da tutta una comunità, ad un individuo che appare  costantemente teso e restio a dare fiducia. L’idea della diversità è un blocco pretestuoso che tiene in ostaggio la nostra mente, a volte fino alla completa alienazione: è il senso di esclusione che ci costruiamo addosso quando non siamo disposti  ad accettare che gli altri notino le differenze e ne traggano un argomento di pensieri e, magari, un motivo di azioni. L’inquilino di Polanski cerca di sparire, di nascondersi, di camuffarsi e perfino di morire per sfuggire a quello che considera un personale fallimento, un tentativo di integrazione non riuscito. Tutto, intorno a lui, pare invitarlo a divenire altro da sé per entrare a far parte del mondo circostante: il vestito della precedente locataria lasciato nell’armadio, una cartolina non indirizzata a lui che la portinaia gli mette in mano, e il tabaccaio, eternamente sprovvisto della sua marca di sigarette, che gliene propone ostinatamente un’altra, fino a convincerlo a passare dalle introvabili Gauloises alle onnipresenti Marlboro. La sua follia è rifiutare quel naturale compromesso con l’ambiente che è l’adattamento:  una soluzione equilibrata, che concilia, entro la giusta misura, continuità e cambiamento. A questa soluzione, il nostro personaggio preferirà, alla fine, la sostituzione di identità, ossia la totale immedesimazione con uno degli attori di quello strano spettacolo, che per lui è irrimediabilmente distante e misterioso: allora, non a caso, deciderà di vestire i panni della vittima, ossia di quella donna che, pochi giorni prima, si è suicidata gettandosi dalla finestra del suo appartamento.  Tuttavia, entrare anima e corpo nella parte non serve a spiegare nulla, ma ha solo l’effetto di innalzare, intorno a lui, i muri di una nuova, strettissima prigione, in cui la visuale è più che mai rigida e limitata.

Sappiamo bene che la verità è una questione di singoli punti di vista; e con The Tenant, quello di Polanski si riconferma un cinema di (auto)ritratti, che, con un uso calibrato della lente deformante e dei giochi di prospettiva, dipinge gli individui mentre (si) guardano e nel modo in cui (si) vedono.  

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