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L'occhio del diavolo

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su L'occhio del diavolo

di Aquilant
8 stelle

“L’occhio del diavolo” (ovvero Bergman che incrocia casualmente Bunuel, sfiorandolo per qualche minuto e poi distaccandosene definitivamente), pur presentandosi nelle non mentite vesti di una commedia che tracima talvolta nel grottesco, presenta al suo interno una specie di intermezzo horror che richiama alla mente talune macabre fantasie tipiche del regista spagnolo, di là da venire all’epoca, inserite nel delirante “Fantasma della libertà”. Per ironia della sorte l’autore asserisce testualmente nelle sue memorie: “Non mi è mai piaciuto Bunuel. Scoprì presto che poteva fabbricare delle artificiosità che potevano essere elevate ad una sorta di geniale specialità bunueliana, e così ripeté e variò i suoi artifici, con risultati sempre ugualmente graditi. Bunuel fece quasi sempre film alla Bunuel.”
E se anche Bergman fece film alla Bergman, ad esempio “Sinfonia d’autunno”, almeno secondo un critico francese non meglio identificato il cui parere fu accolto con un certo disappunto da parte del regista, “l’occhio del diavolo” si pone chiaramente al di fuori delle sue consuete cifre stilistiche.
E dal momento che qui a trovarsi al centro dell’attenzione è più che altro la singolare figura di Don Giovanni Tenorio che ruba completamente la scena, se così si può dire, al suo sinistro datore di lavoro, non staremo a tediare chi legge con l’ennesima citazione del solito vecchio proverbio scandinavo, scambiato da qualche critico addirittura per un detto irlandese, e neppure a disquisire sull’eventuale inopportunità da parte dell’autore di tirare in ballo le potenze infernali, per la serie “mai scherzare col diavolo!” Molto più calzante nei confronti della storia appare una citazione nientemeno che di Soren Kierkegaard: “Ad ogni donna corrisponde un seduttore. La sua felicità sta nell’incontrarlo.”
Don Giovanni è qui raffigurato con una ricchezza di sfumature, preda talvolta di paurosi incubi e costantemente sopraffatto dal peso di una pena confezionatagli su misura, da scontare per l’eternità. Un personaggio che risorto provvisoriamente a nuova vita cade preda dei morsi della passione quasi per una sorta di sarcastico contrappasso, straziato dalla cogente realtà di un amore non corrisposto ed indotto a scegliere la strada del disprezzo e dell'indifferenza. Bergman appare oltremodo attratto dall’effluvio carismatico che emana da tale singolare figura e pur non provando alcun briciolo di compassione nei suoi confronti lo descrive più che come un seduttore impenitente, piuttosto come un individuo bunuelianamente visitato dal “fantasma dell'infelicità”, magari sottoforma di una paurosa statua di pietra.
A proposito della genesi del film, l’autore scrive: -La società aveva acquistato una polverosa commedia danese dal titolo “Ritorna Don Giovanni”. Dymling e io giungemmo a un vergognoso compromesso. Io volevo dirigere “La fontana della vergine”, che lui odiava. Lui voleva che mi occupassi dell’”Occhio del diavolo”, che io odiavo. Eravamo tutti e due molto soddisfatti del nostro accordo e ritenevamo di esserci imbrogliati a vicenda. In realtà, avevo soltanto imbrogliato me stesso.-
Dopo la controversa esperienza del “Volto”, Bergman sceglie dunque ancora una volta di scherzare con un irrazionale dal sapore sulfureo, probabilmente allo scopo di esorcizzare per l’ennesima volta i suoi fantasmi oltre che per ragioni di pura convenienza finanziaria. Ma lo fa con un certo garbo e con un pizzico di arguzia e non manca nel finale di volgere il tutto in scherzo a denti stretti, cogliendo al volo l’occasione di tirare un’ennesima stoccata all’instabilità del rapporto di coppia (il matrimonio è l’arma segreta dell'inferno, cosa sarebbe l’inferno senza il matrimonio?) ed alla volubilità femminile un generale.
Ma d’altra parte secondo il parere personale dell’autore la facoltà di amare realmente è riservata ad numero ristretto di mortali la cui sofferenza appare peraltro insostenibile. Essi sono lo specchio di Dio, riflettono la sua luce e rendono la vita sopportabile a tutti quelli che brancolano nel buio.
Più che mai scatenato, piuttosto che andare alla ricerca di eventuali scheletri nell’armadio della coppia, Bergman si diletta a creare delle vere e proprie situazioni ad hoc per cui è addirittura la stessa entità diabolica ad essere relegata con l’inganno nell'armadio. E perfino in un evidente clima di commedia in cui è l’ironia, seppure diluita con una spruzzata di amaro, a farla da padrona, non manca di palesare ancora una volta una personale visione manicheistica della vita in un periodo della sua fase creativa in cui il silenzio di Dio non si è ancora manifestato in tutta la sua desolante evidenza, anche se il mostruoso ragno nascosto nella parete batte già alle porte.

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