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L'ultimo Imperatore

Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo Imperatore

di lamettrie
8 stelle

Un grande film, utile soprattutto per ripercorrere la storia della Cina del’900, almeno fino a tutto il periodo maoista: un periodo fondamentale per la conoscenza della contemporaneità, ma ovviamente sempre ignorato, innanzitutto a scuola, dove non viene proposto ancora per il vecchio bisogno di oscurare il comunismo, bisogno tipico del capitalismo americano che ancor oggi ci impone la politica culturale.

Tecnicamente il film non si discute: è perfetto per scenografia, costumi, recitazione, musiche. Il suo valore maggiore sta forse nell’esibizione dei cerimoniali del potere assoluto, che neppure in Europa hanno raggiunto mai dei livelli così alti (per fortuna, verrebbe da dire! Lì, infatti, di diritti umani non c’è neanche l’ombra, proprio per quel tipo di potere), come invece è noto che è accaduto in Oriente, in Cina in primis.

Se ha avuto tanti premi, forse ciò è dovuto appunto alla grande, e innegabile, simpatia conservatrice che trapela da tutto il film. Negli anni ’80, trionfo in Occidente dell’anticomunismo, una pellicola così piaceva: mostrava solo i difetti del comunismo, e non i pregi. In effetti lì i pregi del comunismo erano molto meno dei difetti; ma il film ha il demerito di non mostrare in modo altrettanto puntuale tutti i difetti dell’aristocrazia, che (se possibile) sono stati molto maggiori dei difetti del comunismo stesso, cinese e non solo. I difetti allucinanti della nobiltà erano quelli che avevano fatto apparire come preferibile quella dittatura comunista, con tutti suoi ingiustificabili errori.

Se l’opera è filo imperiale, il regista può giustificarlo agevolmente, apparentemente senza prendere posizione: infatti si può appellare alla necessità di dover rispettare filologicamente il testo che è soggetto dell’opera, ovvero l’autobiografia dell’ultimo imperatore. Corretta è la scelta di essere fedeli a tale testo; meno lo è l’assenza di altri testi di riferimento che avrebbero potuto dare una prospettiva differente sui medesimi fatti. Se Bertolucci qui forse ha fatto il furbo, piegandosi al mercato, non può essere tacciato nella sua carriera di filocapitalismo: un’opera splendida come Novecento è chiaramente contro la versione più marcata del potere che ha bisogno della disuguaglianza, e che la incentiva più che può.

E poi il “furbo” Bertolucci non si può negare che abbia messo in luce la fine di un impero: il potere assoluto, così odioso agli occhi di un serio democratico, viene mostrato per quello che è quando si trova “alla frutta”, ovvero per tutta quella parata ridicola che è; quel grottesco consesso di approfittatori, parassiti, che sono privi di ogni dignità, esattamente come appaiono umanamente indegni tutti quelli che prosperano grazie a questo potere che viene mostrato come putrescente, sia dal punto di vista morale (e quindi in sé, sempre), sia dal punto di vista storico (come è accaduto per quella situazione in Cina). E qui il film mostra la sua altra carta: non è solo conservatore, ma anche rivoluzionario, dato che fa vedere il potere nobiliare per quella inaccettabile ingiustizia sociale che è.

 

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