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Zeder

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Zeder

di stanley kubrick
10 stelle

Ci sono dei film che ti lasciano un senso di sorpresa anche dopo l'inconcluso finale. L'horror rurale di Pupi Avati appartiene senza dubbio a questa categoria. Nella sua filmografia, troviamo tante commedie mediocri, pellicole grottesche dei primi inizi, drammaticità alta. E poi ci sono gli horror, quattro per la precisazione, tutti a livelli impressionanti. C'è La Casa Dalle Finestre Che Ridono, che considero tra i 3 horror italiani più belli di tutti i tempi, dove aleggia un senso di impotenza di quello che sta succedendo, mentre i cittadini del piccolo paesino si nascondono agli occhi del protagonista e il buio si accaparra di tutto quello che sta attorno. C'è L'Arcano Incantatore, decisamente meno intrigante rispetto ai primi due, che attraverso il culto dell'esoterismo e della magia mistica porta avanti una storia di identikit falsi, bugie dietro l'angolo, quadri misteriosi. C'è Il Nascondiglio, l'opera horror meno vivace di Avati, dove il buio vige le regole che tutti devono rispettare e la paura nello spettatore comincia a salire ad ogni minuto che passa. E poi c'è Zeder, il secondo in ordine cronologico e anche riguardo la bellezza artistica, che sviluppa un idea di cinema completamente fantastica. Possiamo considerare questo film come l'horror finale di Avati, non essendo neanche l'ultimo, perchè riassume in poco meno di 100 minuti tutte le cose particolari che c'erano o ci sono state nei negli altri horror. La fantasia è l'elemento principale della pellicola, i terreni k non si sono mai sentiti nominare, tanto che il grande scrittore Stephen King li ha riproposti nel suo libro Pet Sematary. La fantasmagorica fantasia, l'elusione della realtà, la voglia di vedere quello che realmente abbiamo davanti agli occhi verrà ripreso ne L'Arcano Incantatore, così come l'idea degli zombi che sbucano dal terreno che stroncano definitivamente l'elaborazione del lutto. Avati non ci propone morti viventi in stile romeriano o fulciano, dove questi esseri morsicano il collo alla gente, "offrono" casa per i vermi, perdono pezzi di ossa anche solo camminando, piuttosto si limita a farli diventare esseri umani, che ritornano vivi (esemplare la scena finale per questa tesi), cosicchè i veri umani non si accorgano dell'inganno. E' tutto inquietante dentro le case, avvolte da un buio pesto che incarna la figura del maligno. Perfino lo Zeder del titolo assume un aria per niente buonista all'apparenza, è lui che ha scoperto i terreni k, è lui che li ha studiati e sperimentati, offrendono un interpretazione che va oltre il paranormale, dato che in queste zolle infinite i morti ritornano vivi. Negli horror padani di Avati, la curiosità del protagonista si scontra con la realtà dei fatti, Lino Capolicchio con i cittadini, Stefano Dionisi con un personaggio in particolare, funesto nella sua complessità, Laura Morante con le persone tutte, mentre qui Gabriele Lavia con il paranormale. Si può notare anche una cosa, nei primi tre horror i personaggi sono tutti maschi, come a ricordare la loro forza e l'intelligenza, e hanno inoltre tutti più o meno la stessa età, mentre nell'ultimo la donna assume un ruolo di primo piano, che significa una totale identificazione con la misticità che avvolge la paura del film. Perfino Dio sembra avvilito dalla potenza negativa di Zeder, la sua visione dei fatti è quella di condannare a morte, se solo potesse farlo, il prete più inquietante della storia del Cinema, Don Luigi Costa, un vivo/morto che rientra nei piani degli scenziati che stanno lavorando al perfezionamento del terreno k a Rimini. La figura di questo prete è resa algida anche dal fatto della malattia mentale, da una responabilità altissima, quella di assistere alla sorella cieca, dal vai e vieni dall'ospedale. La sua tomba risulta la più triste di cui ho un ricordo, non c'è scritto nessun epitaffio, si trova in un posto freddo sotto il suolo, la sua faccia nella foto di ricordo è burbera e lasciata a una solitudine incombente, è stata spaccata e poi riaggiustata poco dopo, ma soprattutto è vuota. Quando Stefano entra in quella piccola cappella che ospita cinque, al massimo sei persone non più in vita, lo spettatore è pervaso da un alone di mistero, quel posto claustrofobico potrebbe essere la nostra tomba in un futuro non molto lontano, gli animali hanno fatto delle tombe la loro casa personale mentre i morti sembrano respirare ancora. La paura raggiunge vertici vertiginosi, grazie anche alla splendida e coinvolgente musicalità della composizione di Riz Ortolani, che riesce quasi ad essere al pari dei Goblin in Profondo Rosso e Suspiria di Dario Argento. Si cita quest'ultimo film insieme a L'Aldilà di Fulci per quanto riguarda la persona cieca che vive in un mondo buio, dove nemmeno la stella più luminosa può fargli tornare la vista. La persona che la assiste è un dissacratore di pensieri, un falso vivo che assume le sembianze dei morti, un inalatore di cattività mischiata a credenze per niente vere, che riesuma la tomba di qualcuno soltanto con il pensiero mentre fa credere alla signora cieca che quello che sta salutando sia veramente suo fratello, una grottesca faccia che è soltanto capace di farsi spacciare per qualcun'altro mentre butta fogli all'aria dentro la casa del Signore. Lo scrittore in crisi è una parabola che ha avuto molto successo, così come il restauratore di dipinti quasi del tutto sbiaditi come faceva Lino Capolicchio nel La Casa Dalle Finestre Che Ridono, basti pensare a Shining, che si ricompone con la macchina da scrivere posseduta, l'elemento scatenante di questa pellicola. La bobina che Stefano trova al suo interno contiene un messaggio agghiacciante che riguarda i terreni k, i tasti della macchina da scrivere sembrano posseduti. Per il protagonista, questo elemento che rivela la presunta veridicità dei terreni scoperti da Zeder sostituisce l'amore che la sua moglie prova per lui. Le consultazioni per trovare il modo di scoprire la verità diventano uno slancio per trovare le persone coinvolte in questi esperimenti. Dottori di famiglia, professori universitari, amici da una vita sono le persone a cui Stefano chiederà veramente aiuto. Quella donna cieca che ho menzionato prima crea un connubio sfaldabile con difficoltà insieme alla scienziata che lavora sui terreni k, entrambi sono vittime di difficoltà ancestrali, che trovano il culmine durante l'inossidabile desiderio che rende cupa la loro anima. Quando Stefano visita la stanza di Don Luigi Costa, la sorella di quest'ultimo appare in uno specchio, che sembra essere il riflettore benevolo che scova il maligno che si crea dentro una persona. Quando invece la scienziata tenta in tutti i modi di rendere l'esperimento benefico e non ci riescie, le corde vocali cominciano a emettere voci stridule, assordanti, mentre nel frattempo il cuore cessa di battere. Si crea anche un connubio familiare anche tra il prete e sua sorella. Se quest'ultima, come ho descritto prima, mostra la sua anima attraverso uno specchio però in maniera astratta, il fratello ha una telecamera dentro la sua tomba, che lo controlla minuziosamente e resta accesa solo quando dentro l'edificio la corrente non viene meno. Il sorriso sadico che mostra all'obiettivo fa accapponare la pelle anche a trent'anni di distanza dalla prima visione, la paura si nota anche nel volto di Stefano quando si limita a vedere quei denti marci, quella pelle bianca, quegli occhi stralunati. La vendetta di Don Luigi Costa si attiva attraverso il meccanismo di profanazione della sua tomba, che ho già spegiato qualche riga prima, il suo passo estremamente fluido per un vivo/morto si scontra con la corsa disperata verso una via di salvezza di Stefano, che ha scoperto tutto. Forse è meglio essere privi di vista, sembra questo il messaggio che Avati inculca dentro le nostre menti, vedere l'antagonista non-morto aggirarsi per le scale dell'edificio, mentre Stefano lo osserva e lo studia con un telescopio, quando all'improvviso ti vede, con i suoi occhi pieni di odio profondo, pensi veramente che la paura si è impossessata del tuo corpo, levare l'occhio curioso non serve a niente, ormai hai visto tutto lo splendido movimento di macchina che Avati ha ideato in quest'occasione. La moglie del protagonista assume il ruolo del peso astratto, vuole comandare a suo piacimento il povero Stefano. La voglia di curiosità che spinge quest'ultimo a una verifica finale sui preconcetti che sta cominciando a individuare nei confronti dell'edificio posto davanti al motel in cui alloggia non si possono fermare soltanto a livello di mera osservanza. Quel tunnel maledetto che porta in quel luogo privato, voce di esperimenti su questi terreni k, è la forma megalodontiana che porta all'inevitabile morte, che avvolge anche amici, parenti, persino la tua moglie. Se l'incipit mostrava qualcosa di veramente surreale, fuori dagli schemi cinematografici, il passaggio pieno del film dagli umani agli zombi diventa sinonimo di movimenti sottoterra languidi e silenziosi, eppure totalmente identificabili. Non esiste un finale nei film di Pupi Avati, ma soltanto la decomposizione di ogni forma di arte. Dalla scrittura all'inverosimilità, fino ad arrivare ad una lenta disumanizzazione che gli zombi attuano in maniera pazzesca. 

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