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Gli spietati

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Gli spietati

di LorCio
10 stelle

Probabilmente sì. “Gli spietati” è l’ultimo western possibile. È il crepuscolo degli dei, è l’inverno del nostro scontento (e poco importa se batte il sole selvaggio dell’America in cui si ammazzano i presidenti), è la chiusura di un ciclo. Quella che potrebbe essere scambiata superficialmente per nostalgia è in realtà celebrazione. Non è semplice passatismo da nostalgici di regime – e in questo caso il regime è quanto mai accettato e democratico, chiamiamolo così, il regime dei Ford e dei Leone (Sergio, a cui il film è dedicato, assieme a Don Siegel) – ma qualcosa di più profondo: vedendo scorrere sullo schermo le immagini del sublime film di Eastwood (forse l’unico attore capace di dirigersi quando sta di fronte alla macchina di presa, una sorta di duplice funzione che si fonde all’ubiquità) c’è un sentimento che si diffonde con rassegnata, umile, brutale forza. È la malinconia, punto. Saranno pure spietati Clint e il suo socio Morgan Freeman, così come lo sceriffo Gene Hackman e il killer Richard Harris, ma sono irrimediabilmente legati al loro passato: sono miti di loro stessi, icone senza possibilità di futuro scritto sulle pagine dei giornali nella sezione “cronaca nera”. Non sono diversi, sono cambiati. È come se volessero lasciare il palco un minuto prima che tutto scompaia, o meglio, che tutto si imbarbarisca. Nella loro criminalità (lo stesso sceriffo Hackman è un criminale, perché sostituisce la violenza alla Legge) hanno un’etica rispettosa che poco a che fare con la gratuità della violenza contemporanea (si ricordi la scena in cui Clint, dopo aver sparato al suo bersaglio, sbraita all’avversario di dare alla vittima dell’acqua). “Gli spietati” è un passo d’addio, un requiem sommesso, mesto, lirico, in cui la pioggia batte quasi a voler dissuadere dagli intenti, e il sangue scorre a forza, anche esso per distogliere i vecchi eroi di replicare le imprese del male. La musica, poi, sta proprio lì a sottolineare il ruggito struggente dei vecchi leoni (Les Frosholtz), così come i colori dell’umida fotografia di Jack N.Green cercano un contatto con la Storia del West per trovare una pace smarrita tra qualche taglia inutile e una balla di troppo. È un film maschio sulla vendetta necessaria maschia (“E adesso sono qui per uccidere te, Little Boy, per quello che hai fatto a Ned. E voi è meglio che vi scansate”), sull’impossibilità maschia della redenzione (o almeno sulla difficoltà di tagliare i ponti col proprio passato – “Ho ucciso donne e bambini, e creature che camminavano e strisciavano in tempi lontani”), sulla crisi maschia di identità di un Paese senza pietà (suggerita dal grillo parlante inglese Sir Harris, spietato elegante ma vittima del suo Mito), sull’amicizia maschia, sulla lotta maschia, sulla crescita maschia. E nonostante tutto è anche un film radicato nel più onorevole rispetto verso la donna (tutto nasce da una donna sfregiata da vendicare, dopotutto). Grandi attori: Clint ruvidissimo, Freeman premonitore, Hackman brutale, Harris romantico. E a suo modo è una storia romantica. Massì, certo che lo è. Di gran respiro, d’amore, di morte e di altre sciocchezze.

Cosa cambierei

Voto: 9.

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