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Gli spietati

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Gli spietati

di scapigliato
10 stelle

“Tutti lo meritiamo, Kid”. Prendiamo la pulizia, il rigore e la bellezza delle inquadrature, accostiamoli alla purezza epica e alla commozione mitica del western, e affianchiamoli al contenuto disperato, pessimista e a tratti maledetto della storia e della poetica tutta eastwoodiana di Unforgiven, e troveremo il capolavoro. Il vecchio Clint - vecchio in accezione affettiva - firma il capolavoro dei capolavori. Non solo quelli western, ma quelli di una nazione intera. Clint, con questo suo primo film da Oscar, ci dice che l’America ha perso. Abbiamo perso tutti, perché “tutti lo meritiamo, Kid”. Avevamo lasciato Clint Eastwood a cavallo nel 1985. Era il cavaliere pallido del titolo, Pale Rider, ed arrivava in una comunità di pionieri come un religioso, un messia, per poi rivelarsi per quello che era, un giustiziere metafisico. Lo avevamo lasciato che se ne andava come suo solito nel nulla da dov’era arrivato, come aveva fatto prima ne Il Texano dagli Occhi di Ghiaccio, nel ruolo del fuorilegge Josey Wales del titolo originale, e prima ancora nei panni dello straniero senza nome di High Plains Drifter. Prima di questa trilogia dello “straniero”, c’era stata quella del “dollaro”, in cui abbiamo imparato ad amarlo, conoscerlo, rispettarlo come attore, uomo e icona. Poi sono seguiti western di rispetto, diretti da artigiani del genere come Impiccalo Più in Alto di Ted Post, Gli avvoltoi Hanno Fame e La Notte Brava del Soldato Johnathan dell’amico Don Siegel, e il Joe Kidd di John Sturges. Un pistolero quindi, quello di Clint, che pur restando fedele alla mitologia leoniana, si variava e mutava all’interno dello stereotipo duro, crudo e anarchico che gli competeva come uomo e coscienza critica della vecchia destra americana. Ad un pugno di anni da quel Pale Rider dell’85, Eastwood torna in sella e lo fa alla grande, chiamando con sé due mostri sacri del cinema americano: il Morgan Freeman che mette tutti d’accordo, e il gigantesco Gene Hackman, il duro per antonomasia che ha diviso questo titolo proprio con Eastwood stesso. Nello stesso anno per esempio, il ’72, uscivano in ordine Il Braccio Violento della Legge ad ottobre, e a dicembre il primo Callahan, Dirty Harry diretto da Don Siegel. Entrambi nati nel 1930, i due duri del cinema “contro” americano non s’erano mai incrociati in un film. L’occasione è un western crepuscolare, restato chiuso nei cassetti di Hollywood per anni.
Il loro primo incontro è nel saloon di Big Whisky, il paese in cui si svolge e ha fine la vicenda di William Munny e soci. Gene Hackman, nel ruolo dello sceriffo Little Bill Dagget, gli si avvicina nella notte fumosa del saloon, mentre William Munny delira per la febbre. Lo insulta da gran carogna che è: “Signor William Hendershot, io dico che sei un maledetto figlio di puttana e un bugiardo. E se aggiungo che ti caghi nei pantaloni perché sei un vigliacco, scommetto che tiri fuori quella pistola e mi spari. Non è così?”. Lo insulta, lo pesta, lo prende a calci, lo riduce in fin di vita, come aveva fatto poco prima in un’antologica scena con Richard Harris. Credutolo morto si dedicherà agli altri due. La scena madre del film, se non fosse per la successiva resa dei conti finale in cui si scopre il gioco del Clint Eastwood autore, preparato con sapienza lungo l’arco di tutta la pellicola.
Il suo personaggio parte come un emblema a metà dell’americanismo puro: redento dopo una vita di peccati, integro moralmente e dalla retorica facile. Strada facendo, questo William Munny, s’incontra con il suo vecchio West, quello dello straniero leoniano e dei Josey Wales successivi, fatto di bivacchi notturni, whisky e sparatorie, qui chiaramente lette in accezione ironica e crepuscolare. Per arrivare poi a rimpugnare il fucile con cattiveria, la bottiglia con avidità e l’onnipotenza con delirio. Ritrova il gusto del delitto e la spietatezza dell’ammazzacristiani che era. Ma il suo non è un inno alla violenza, alla ripresa del machismo anni ’80 che faceva la fortuna degli Stallone e degli Schwarzenegger reaganiani. Bensì è il canto del cigno di un Paese intero, nato e crostuito sulla violenza, sull’immagine e sulla retorica delle istituzioni. Un Paese che Eastwood ha pure servito, anche come sindaco repubblicano di Carmel, California, ma di cui è sempre stato la coscienza critica e non la posticcia bandiera infelice alla Charlton Heston. Il vecchio Clint sa tratteggiare la disperazione dei suoi personaggi, compreso proprio il suo, con la sobrietà del classico autore, quello che non passa di moda perché la moda non l’ha mai seguita. Il suo William Munny è il fiore all’occhiello di una Nazione che fa della moralità un’istituzione. Vecchio killer spietato, un’ammazzacristiani senza rivali, William Munny è cambiato. Ora è un buon padre di famiglia, che ha rinnegato l’alcol, le armi e il vizio, per la sua amata moglie e per i suoi figli. Quale quadretto migliore per una propaganda a stelle e strisce? Ma poi arriva l’imprevisto. Il passato, con cui gli americani tardano a fare i conti, torna prepotente e riporta il pistolero Munny sulla strada della violenza. Non c’è più pieta, come dice in Potere Assoluto, perché ne ha finita la scorta. Non c’è vera redenzione perché il marcio ce lo portiamo dentro. Un personaggio che gli è valsa la sua prima nomination agli Oscar come attore. Non che questo ne faccia automaticamente il suo primo grande personaggio, ma sicuramente ci fa notare come la critica e gli addetti ai lavori abbiano visto in lui la propria coscienza, il proprio Caronte che li traghetta al di là del fiume del conformismo storico.
Seguono a ruota altri personaggi emblematici come Bob l’Inglese a cui da volto e anima il grande Richard Harris. Invecchiato e consumato, il celebre attore britannico assume il tono di un coro da tragedia greca che dapprima avverte gli “americani” che sono un popolo in pericolo, visto che uccidono facilmente un loro Presidente, e poi li ammonisce come popolo di immorali, di selvaggi e di senza legge. Da qui il film, chiaramente, s’inclina nella sua vena pessimista e più cupamente crepuscolare. Di seguito troviamo il personaggio del giovane Scoffield Kid, interpretato da Jaimz Woolvett, cieco e presuntuoso che crede di assumere una statura da vero uomo solo col delitto, e infatti poi si trova a fare i conti con i suoi demoni. 
Al personaggio di Morgan Freeman, Ned Logan, Clint Eastwood ha dato invece il valore dell’innocenza sacrificale. Unforgiven è dopotutto un'unica perdita di innocenza. Il personaggio di Freeman ha anch’esso appeso letteralmente il fucile Spencer al chiodo; ha una moglie indiana, Sally Due-Alberi, che lo ama nel mutismo di un popolo distrutto; ha le idee chiare circa la sua vita, e davanti all’omicidio si tira indietro perché semplicemente non ce la fa. La scena in cui i tre vendicatori uccidono il primo dei due cowboy colpevoli dello sfregio alla puttana, è infatti una scena in cui sotto la luce solare straordinaria che l’autore ha voluto conferirle, s’avverte il peso del delitto. Hanno ucciso un uomo, e fanno fatica pure a respirare. Una voce dal canyon urla loro “Avete ucciso un ragazzo”. I loro fiati si smorzano, i loro sguardi si fuggono, e immaginiamo anche che i loro cuori si spezzano. In questa scena il Ned Logan di Freeman s’incarica di assumere la valenza del pubblico che s’interroga, che inizia a riflettere su ciò che ha visto. Chi è più colpevole? Il cowboy o il suo assassino? La linea tra giusto e sbagliato si spezza di nuovo, e confonde le acque dell’umana coscienza. Eastwood è così l’espressione più sincera di un nuovo umanesimo che fa dell’uomo moderno un uomo eastwoodiano, con caratteri e tracce di inquietudine, angoscia e pessimismo smorzate dalla vitalità e dall’orgoglio dell’individuo, che a differenza della massa può e deve cambiare il mondo.
Ma tra tutti ecco giganteggiare il più grande attore vivente: Gene Hackman. La sua proverbiale durezza, il suo distacco autoriale dal personaggio, i suoi occhi inquieti e la sua brutalità gestuale stigmatizzano un nuovo villain della sua personalissima galleria, ma creano anche le premesse per disegnare un personaggio ambiguo, che non è poi solo cattivo. Infatti, nel ruolo dello sceriffo manesco e violento Little Bill Dagget, l’attore non tocca i picchi di violenza e sadismo del suo successivo “bad pistolero” John Herod di Pronti a Morire, ma rimane ugualmente la lucida e disillusa metamorfosi spietata di un Paese. Come ricorda Eastwood spesso e volentieri in interviste e chiacchierate varie, Little Bill è solo uno sceriffo che vuole dondolarsi sotto il portico, fumare la pipa e bere del whisky mentre si gode il tramonto. Il mito della casa in America ha un’interpretazione più particolare di quella europea, che è tutta improntata alla socialità e alla custodia della sacralità religiosa della famiglia. In USA tutto sa sempre di istituzione, di propaganda nazionale. La casa non è solo il focolare domestico, ma anche il luogo preservato dalle minaccie esterne, il luogo in cui ogni uomo è libero nella sua proprietà. É insomma l’edificazione della cultura america. Tanti sono infatti i film in America, la quasi totalità, che prevedono nel loro plot una minaccia esterna che mina, appunto, l’interno. L’interno può essere una famiglia, e lo è quasi sempre, ma può essere anche una scuola, una città, un aereo o un treno. La casa rappresenta quindi una Nazione in miniatura, come ha capito e poi ben rappresentato Wes Craven in uno dei suoi horror più politici: La Casa Nera, che è a tutti gli effetti un’allegorizzazione in negativo della Casa Bianca.
In questo discorso, ecco che la costruzione della propria casa fa dello sceriffo Little Bill Daggett un costruttore del Paese, un suo edificante, nella doppia accezione di “chi edifica” e di “chi è edificante moralmente”. Ma la sua casa, come sappiamo, fa proprio acqua da tutte le parti. La legge dura e violenta sulla quale il suo personaggio fonda tutta la sua vita come uomo istituzionale, si rivela fallimentare tanto quanto l’anarchica violenza dei vigilantes di Eastwood. Alla fine non c’è speranza per nessuno. E a nessuno può esser messa in discussione la vita. Non esistono eroi o colpevoli. Non ci sono uomini che meritano di morire, perché “tutti lo meritiamo, Kid”.

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