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Legge 627

Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film

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La recensione su Legge 627

di joseba
8 stelle

A causa di un litigio con un ottuso superiore che pretende l'immediato rientro di un furgoncino in centrale nel bel mezzo di una lunga e importante operazione, l'investigatore di seconda classe Lucien Marguet, soprannominato "Lulu", è allontanato dalla polizia giudiziaria. Inizialmente assegnato ad un routinario e superfluo lavoro di ufficio, dopo qualche tempo viene aggregato alla brigata stupefacenti, un gruppo di poliziotti decisamente sui generis. Lulu si integra rapidamente e con grande facilità, ma tra scherzi pesanti, abbuffate goliardiche, scalcagnati pedinamenti e appostamenti snervanti la sua fiducia nel mestiere di poliziotto inizia a scricchiolare. Intanto, ridotta ai minimi termini, la sua vita privata va a rotoli. Se "Il commissadro" ("Les ripoux", 1984, di Claude Zidi), con la sua rappresentazione corrotta e beffardamente antieroica del mestiere di flic, è il polar più anticonvenzionale degli anni '80, "Legge 627" ("L.627", 1992) è senz'altro il titolo policier più innovativo degli anni '90. Al suo quindicesimo lungometraggio cinematografico, Bertrand Tavernier (classe 1941) decide di sbarazzarsi totalmente degli stereotipi che regolano il genere e, sulla base di un soggetto fornitogli da un vecchio poliziotto (Michel Alexandre, presente in un cameo nella parte di un cuoco), concepisce un film di inaudito realismo e impressionante cronachismo. Assenza di un vero e proprio plot narrativo, rifiuto della spettacolarizzazione visiva tipica del poliziesco, riprese sul campo con una steadycam agilissima e assunzione deliberata del punto di vista della brigata stupefacenti come prospettiva univoca: grazie a questi accorgimenti, Tavernier descrive senza esaltazione o indulgenza la lotta contro il traffico di droga a Parigi di un piccolo e variopinto gruppo di agenti costretti non solo a fronteggiare la microcriminalità legata al mondo dello spaccio, ma anche a vivere sulla loro pelle la disorganizzazione, l'inefficienza e l'ipocrisia di un'istituzione che si fa bella con statistiche e riunioni ufficiali, lasciando però i suoi rappresentanti a corto di mezzi per gli appostamenti e di carta carbone per i verbali. Fatta piazza pulita dei cliché classici (inseguimenti automobilistici con inquadrature dalla scocca delle macchine, montaggio frenetico e illuminazioni artificiali), "Legge 627" (il titolo si riferisce a un articolo del codice della sanità pubblica che obbliga i poliziotti a far esaminare da un medico i tossicodipendenti in stato di fermo) si concentra sostanzialmente sull'attività della brigata stupefacenti. I delicati rapporti con gli informatori, i lunghi appostamenti nei "sottomarini" (furgoni apparentemente anonimi in dotazione alla brigata) e i pedinamenti coordinati via ricetrasmittente si intrecciano ai rientri in sede, un piccolo prefabbricato alloggiato nel cortile della centrale, tra burle più o meno gradevoli, piccole complicità e un'atmosfera di scazzo generalizzato. Ma anche se è il gruppo nel suo insieme ad essere dipinto con dovizia di particolari (ogni poliziotto ha tempo e modo di esprimere la propria personalità, dal ghiotto e sornione Manu al giovane e zelante Vincent, passando per la loquace e intraprendente Marie), l'autentico protagonista del film è Lulu (Didier Bezace), flic trentacinquenne che non si perde d'animo neanche quando è allontanato dalla "police judiciaire" e punito con un incarico alla scrivania di un ufficio periferico. L'aggregazione alla "Brigade des stup'" mette tuttavia a dura prova la fiducia nel suo mestiere, complice l'infatuazione per Cécile (Lara Guirao), una prostituta tossica e sieropositiva con cui ha una relazione esclusivamente platonica. Sistematicamente frustrato dall'inconcludenza delle indagini (non una sola operazione va a buon fine) e incapace di difendere Cécile dalle proprie tendenze autodistruttive, Lulu trascura la vita familiare e sprofonda lentamente in uno stato di insoddisfazione cronica che sfiora l'indifferenza. In un'intervista Tavernier ha definito il suo film "la cronaca di una perdita di fede" ed è innegabile che la lenta erosione delle illusioni di Lulu abbia una sua rilevanza (soprattutto perché rappresentata gradualmente e silenziosamente, in assenza di traumi eclatanti), ma ciò che colpisce maggiormente lo spettatore e che lascia un segno indelebile nel polar è senza ombra di dubbio il taglio antispettacolare e radicalmente basico della rappresentazione. Un'impronta cinematografica ruvida e immersiva che non ha mancato di suscitare reazioni violentemente discordanti in seno alle stesse istituzioni: se il Ministro degli Interni ha disapprovato formalmente la visione del mondo poliziesco offerta dal film definendola pessimista, la Federazione autonoma dei sindacati di polizia (FASP, un sindacato minoritario) ha elogiato il film di Tavernier per la fedeltà con cui traccia le difficoltà quotidiane di un'unità parigina. Incomprensibili infine, tenendo conto dell'altissimo scrupolo realista di "L.627", le accuse di razzismo rivolte a Tavernier per aver rappresentato gli spacciatori come prevalentemente neri o nordafricani. Inutile dire che i pregiudizi politicamente corretti a volte fanno più danni della censura ufficiale.

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