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La folla

Regia di King Vidor vedi scheda film

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La recensione su La folla

di spopola
10 stelle

L’altra faccia del sogno americano raccontata con una intensità e una commozione che il tempo non ha scalfito. Qui è in scena l’uomo comune con le sue gioie e le sue miserie , le sue speranze e le sue frustrazioni. Una sommessa elegia della vita insomma capace ancora di incantare lo spettatore

Qualcuno si è mai soffermato sulla assoluta modernità di un film come “La folla” di King Vidor – anno 1928 - fugacemente di passaggio in impossibili apparizioni notturne “Fuori Orario” su Rai 3 e per questo difficilmente fruibile ai giorni nostri nonostante l’importanza della pellicola? C’è alla base dell’opera, una personalissima, riuscita rilettura di “Manhattan Transfer” di Dos Passos: “In principio erano Babilonia e Ninive ed erano costruite in mattoni. Atene era tutta colonne di marmo e oro. Roma posava sui grandi archi di tufo. A Costantinopoli i minareti fiammeggiano come grandi ceri intorno al Corno d’Oro… Acciaio, vetro, tegole, cemento saranno i materiali del grattacielo. Stipati sull’isola angusta, gli edifici dalle migliaia di finestre si drizzeranno splendenti, piramidi su piramidi, simili a cime di nuvole bianche al disopra degli uragani.” Realistico e visionario allo stesso tempo come solo il cinema di quegli anni sa esserlo, racconta la storia di Johnny Sims, che a 21 anni, orfano di padre, sbarca a New York dalla provincia alla ricerca di un lavoro, conosce Mary, si innamora di lei e la sposa. Arriveranno poi, dopo l’idillio del viaggio di nozze alle cascate del Niagara, le frustrazioni della vita coniugale per le opprimenti e costanti intrusioni della famiglia di lei (madre e fratelli), che contribuiranno a determinare lo sfilacciamento progressivo del rapporto, fra domeniche inerti a Coney Island e tensioni crescenti, che la nascita dei figli (un maschio e una femmina) sembra possano in qualche nodo ricucire in superficie. La morte della figlia dopo una straziante agonia a seguito di un incidente stradale, segnerà l’inizio della fine: Johnny, profondamente segnato dall’evento, verrà licenziato e sarà costretto a vivere di espedienti, perdendo così anche le certezze della famiglia perché Mary, istigata dai fratelli, deciderà di lasciarlo. E’ la sconfitta totale, la fine delle ambizioni e delle utopie, ma l’uomo disperato e senza più speranza, troverà nel figlio, in una lunga “fuga” fra la gente che affolla le strade della città, nuova fiducia e nuovi stimoli che lo aiuteranno a ricostruire l’equilibrio e a recuperare in qualche modo l’affetto della moglie. L’epilogo sarà ancora fra la gente (quella del circo, luogo che sancisce la ritrovata unità familiare) dove in qualche modo e nonostante tutto, si riesce ancora (forse con un pizzico di incoscienza) a ridere nuovamente dei lazzi dei clown, analoghi e uniformi alla folla tumultuosa che li circonda e che riempie le gradinate del tendone.Il substrato sociale è ovviamente offerto dal romanzo di Dos Passos (eccellente scrittore di rottura, anticonformista e “progressista”, non ancora ripiegato su se stesso, quasi involuto, in quel processo di “rincitrullimento” senile che negli anni estremi della sua maturità lo porterà ad assumere posizioni assolutamente reazionarie e in antitesi con i suoi capolavori giovanili) - ma si avvertono echi sotterranei e influenze da Dreiser e S. Lewis e da tantissima altra letteratura americana del periodo, oltre che da molto “girato”di registi europei o importati dall’Europa (soprattutto Murnau) - e fornisce l’ordito per un’opera fondamentale e insolita: Vidor, assimilando e facendo proprie le più interessanti innovazioni linguistiche del cinema muto, raggiunge con questa pellicola il più alto risultato espressivo di tutta la sua carriera. Esemplari, per rappresentarne la potenza dello stile, le lunghissime carrellate che seguono, esplorano e di volta in volta, evidenziano o allontanano i personaggi inglobandoli nel contesto di una folla brulicante e in movimento, nelle frequenti e arditissime (per l’epoca) sequenze girate per le strade, intuizioni geniali che anticipano i metodi e le soluzioni che saranno poi fatte proprie dalla corrente neorealistica (esterni rigorosamente autentici e non ricostruiti né “abbelliti”, attori non professionisti per aumentare l’effetto verità della recitazione, cineprese nascoste per fotografare nel suo divenire - senza mediazioni o artifici che la drammaticizzino eccessivamente - la realtà della quotidianità “senza storia”). Eleggendo a protagonista una coppia schiava di un’esistenza mediocre e alienante, il regista riesce bene a focalizzare (spostandolo spesso all’esterno, fra la folla che ne rappresenta la cornice catalizzatrice) il dramma e le contraddizioni evidenti di una vita incolore schiacciata dalle troppe ambizioni di una società costruita (già allora) sui miti del successo, del denaro e della popolarità, in un momento storico particolarmente nebuloso e incerto che si avviava precipitosamente verso la disintegrazione della devastante crisi economica del 29. In questo senso, risulta quasi profetico quel lento e progressivo scivolare verso il nulla e la disperazione (il lieto fine è ovviamente una convenzione, come spesso accade al cinema e non solo di quegli anni, imposta come elemento di bilanciamento consolatorio per il pessimismo generale della metafora, dal - per il resto coraggioso e lungimirante produttore e sostenitore dell’opera - mitico Irwin Thalberg). E’ insomma l’altra faccia del sogno americano quella che ci viene mostrata con crudezza analitica, in questa amara parabola che per tematiche e forma, si distacca dalla produzione corrente di quegli anni. Vidor darà poi un seguito ipotetico a questa storia (ancora con risultati di altissimo pregio) con “Nostro pane quotidiano” del 1934.

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