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Dogs

Regia di Bogdan Mirica vedi scheda film

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La recensione su Dogs

di Peppe Comune
8 stelle

Roman (Dragos Bucur) arriva da Bucarest per stare alcuni giorni nella grande casa del nonno defunto situata nella regione di Dobrogea, al confine tra la Romania e l’Ucraina. Giusto il tempo per prendere visione del vasto territorio ereditato dal nonno e pianificarne la vendita ad un’agenzia immobiliare. Ma Roman scopre che il nonno era capo di una potente banda criminale e che il suo posto è stato preso da Samir (Vlad Ivanov), un uomo violento che in alcun modo può permettere che quel vasto territorio venga sottratto al suo totale controllo. Roman è informato di tutto questo da Hogas (Gheorghe Visu), un poliziotto cagionevole di salute che cerca di far rispettare la legge in una terra che conosce solo la violenta legge del più forte. Il nipote del vecchio capo diventa quindi un ostacolo per il mantenimento degli equilibri criminali di sempre. La vendita dei terreni va impedita ad ogni costo, ne vale la salvaguardia di traffici illeciti che in quel territorio dimenticato da tutti garantiscono soldi, potere e impunità.

 

scena

Dogs (2016): scena

 

“Caini”del regista rumeno Bogdan Mirica è un film intriso di cupa disperazione, carico di una rabbia che non chiede mai il permesso per potersi esprimere con tutta la libertà del caso. Il regista è bravo a farne l’elemento caratterizzante di una storia che tende a legare le pratiche moderne delle bande criminali con gli istinti violenti che da sempre albergano nel genere umano. Un legame che genera uno sviluppo narrativo dagli esiti esplosivi e incontrollati, alimentati da una messinscena che mutua direttamente dal western la tipizzazione del suo ritratto d’ambiente. Conserva infatti alcuni tratti tipici del “genere”, compreso un percepibile senso di morte che mette su uno stesso piano di pericolo qualsiasi essere vivente. L’ambientazione desertica e assolata è la “tipica” terra di nessuno, dominata dall’atavica legge del più forte e dall’impunità di chi sa esercitarla meglio. Una terra popolata da animali che vivono allo stato brado e da uomini che somigliano a dei cani arrabbiati per come sanno difendere solo con la cieca violenza il loro spirito di sopravvivenza. Entrambi inclini a dare libero sfogo ai propri istinti primari ma anche consapevoli di doversi guardare sempre le spalle, di essere in balia della morte che può arrivare in qualsiasi momento e per mano di chi uno meno se lo aspetta. La struttura narrativa, invece, fa perno sulla più classica resa dei conti inevitabile e definitiva, dove i “buoni” sono costretti dagli eventi a dover entrare in un gioco pericoloso molto più grande di loro, e dove i cattivi si sentono autorizzati a vivere svincolati dal rispetto di ogni legge e qualsiasi morale.

Il confine tra una legge da far rispettare dai tutori dell’ordine pubblico e quella non scritta prodotta da codici comportamentali generalmente tollerati, non solo è labile per il coesistere in uno stesso spazio di uomini dalla scorza dura che sono naturalmente portati a rispettare l’essenza dei rispettivi ruoli, ma è prosciugata a monte da una consuetudine a delinquere consolidatasi negli anni e che con gli anni ha potuto regolarizzare l’abitudine per ognuno a rimanere nel proprio spazio vitale. C’è voluto un agente estraneo ed esterno per insinuare una crepa in questo muro di complicità omertosa, è bastata l’idea di estromettere un territorio vastissimo dal totale controllo della criminalità organizzata per far emergere con violenza il più primitivo spirito di conservazione e a scatenare rivalità rimaste a lungo latenti. Proprio come dei cani arrabbiati che si contendono la preda, ognuno sa che non c’è abbastanza carne per poter sfamare tutti secondo le rispettive esigenze e che chi resta fuori dal banchetto rischia di rimanerci per sempre.

Questo ipotetico banchetto è rappresentato da tutta quella terra che fa da cornice cupa al film, una terra bella e inospitale insieme che si fa scenario silente della violenza che si compie per effetto dello scontro “titanico” tra opposti egoismi. Roman gli mostra indifferenza perché viene dalla città ed è abituato a ben altri usi e costumi. Gli è estraneo tutto di quel mondo, compreso il nonno di cui nulla sapeva dei traffici illeciti che conduceva. Vendere tutto al miglior acquirente gli sembra la cosa più giusta e semplice da farsi. Non la pensa così Samir, che su quel territorio vuole conservare un potere arbitrario esercitato senza alcuna forma di condizionamento. Vuole farla rimanere una terra senza legge e senza alcun padrone riconosciuto. Tra di loro si pone la figura decadente di Hogas, un poliziotto stanco e disincantato che si muove tra i cocci di un’umanità allo sbando, cercando di insinuare un po’ di ordine ragionato in mezzo a tanto disordine calcolato. Nel tentativo di ammansire gli equilibri criminali di sempre, come si farebbe con un cane arrabbiato a cui è stato solo insegnato a mostrare i denti.

Non ci sono cavalli al galoppo che portano in sella Bounty Killer assetati di soldi e neanche pistoleri sul crinale del tramonto intenti a sfidare in armi un domani che non gli piace. Ma pick-up roboanti che fanno sentire con forza la loro rumorosa presenza, gente che scompare nel nulla e acque paludose che restituiscono resti umani. Ma è la presenza "invasiva" di una terra di nessuno dove la violenza ha messo radici inestirpabili a rendere “Caini”, più un western disincantato alla Sam Peckinpah (forse omaggiato) che un noir di stampo contemporaneo. Tra i motori che alimentano da sempre la vita del mondo, la violenza è uno dei più resistenti, soprattutto quando c’è assenza di umanesimo e la legge del più forte può prevalere con più facilità. Questo sembra voglia ribadire Bogdan Marica con "Caini", un film che (evidentemente) guarda di sottecchi alla condizione socio-politica del suo paese carpendone la sostanza disfunzionale.

Altra piacevole scoperta dal “nuovo” cinema rumeno.           

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