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Una brutta storia

Regia di Claude Sautet vedi scheda film

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La recensione su Una brutta storia

di hupp2000
10 stelle

Ennesimo e purtroppo poco conosciuto capolavoro di Claude Sautet, con un Patrick Dewaere al massimo delle sue capacità e uno stuolo di attori sorprendenti.

Bruno rientra a Parigi dopo cinque anni di detenzione negli Stati Uniti per consumo e spaccio di stupefacenti. Al suo atterraggio a Roissy, la polizia lo informa sui controlli cui dovrà sottoporsi. Il giovane si reca da suo padre, un operaio edile che accetta di ospitarlo, pur considerandolo moralmente responsabile della morte della madre avvenuta due anni prima. I servizi sociali gli procurano un impiego presso una libreria gestita da Adrien Dussart, un omosessuale amante di letteratura e musica lirica, ma soprattutto disposto ad accogliere ex-tossicodipendenti in cerca di reinserimento sociale. Qui, Bruno incontra Catherine, una ragazza che ha vissuto un’esperienza analoga alla sua. Tra i due nasce un intenso rapporto amoroso, ma di lì a poco Catherine ricade nella dipendenza da eroina, rischiando di trascinarvi anche il suo nuovo compagno di vita. Ad evitare che la situazione precipiti nel peggiore dei modi sarà l’anziano libraio, riuscendo a riportare la ragazza in un centro di disintossicazione e sostenendo Bruno che nel frattempo ha trovato un impiego stabile in una falegnameria.

Questa è solo per sommi capi la trama di un film pieno di sfaccetature, realizzato con dovizia di particolari sulle personalità e i caratteri di ogni singolo personaggio, con un continuo avvicendarsi di scene e situazioni inattese. Per esempio, il padre riabbraccia il figlio nonostante lo consideri il “mauvais fils” del titolo originale, sia per il suo trascorso da spacciatore che per la morte della madre. Poi lo caccia di casa credendo di vederlo del tutto indifferente di fronte alle sue colpe. Successivamente però, Bruno scopre che suo padre aveva per amante la migliore amica della moglie ben prima della morte della stessa e i ruoli si ribaltano. Non meno precario si rivela il contesto rassicurante che viene a crearsi nella libreria di Adrien Dussart. Lo spettatore ha appena avuto il tempo di tirare un sospiro di sollievo dopo la serie di difficoltà cui ha dovuto far fronte il protagonista, si è lasciato intenerire dalla nascente storia d’amore, ma l’intero impianto narrativo salta per aria con il ritorno della tossicodipendenza di Catherine. Gli esempi potrebbero continuare.

Fedele al suo stile narrativo e alla sua costante ricerca di introspezione psicologica dei personaggi che mette in scena, Claude Sautet opera con questo impeccabile film un cambiamento generazionale e sociale che gli riesce a meraviglia. Da un lato sceglie come protagonisti due attori di spicco ma ancora molto giovani come Patrick Dewaere e Brigitte Fossey, rinunciando ai mostri sacri che lo hanno splendidamente assecondato nelle grandi pellicole precedenti, da Michel Piccoli a Philippe Noiret, passando per Romy Schneider, Yves Montand, Serge Reggiani o Samy Frei. Dall’altro, mette da parte le figure della borghesia agiata o benestante cui ci aveva abituati, ambientando la vicenda in un contesto proletario nei difficili anni della Francia giscardiana. Il suo realismo resta intatto e le scene sui cantieri edili o tra i lavoratori precari e spesso extracomunitari appaiono spontanee e particolarmente ben riuscite.

Infine, quello che per me resta uno dei migliori registi francesi del secolo scorso, è coadiuvato da uno gruppo di attori non solo affiatati, ma decisi a dare il meglio del loro talento. Patrick Deware si cala in un personaggio veramente complesso, la cui disordinata esistenza è tutta in salita. Non è uno stinco di santo, ma rivela a tratti una sorprendente sensibilità nei suoi rapporti umani, che si tratti della tormentata relazione con il padre, della vicenda sentimentale con Catherine o dell’esperienza nella libreria di Adrien Dussart. Claude Sautet punta molto sui suoi primi piani, sull’enorme espressività del suo sguardo, sulla sua capacità di adirarsi senza mai cedere alla sceneggiata. Gli anni, i decenni passano e continuo a non rassegnarmi all’idea che un attore di cotanta levatura abbia potuto mettere fine ai suoi giorni a solo 35 anni.

Al suo fianco brillano in questa occasione altri tre interpreti non meno affascinanti e sorprendenti per le loro prestazioni. In primo luogo Brigitte Fossey. La Geneviève di François Truffaut ne “L’uomo che amava le donne” (1977), incarna in maniera inquietante il personaggio della ex-tossicodipendente non completamente uscita dal classico tunnel. E’ sommessa, piena di buona volontà ma debolissima. Anche qui, nulla di gridato, una composizione sul filo del rasoio e di grandissima intensità. Non meno convincente il ruolo del padre di Bruno, affidato a Yves Robert, grande figura del cinema d’Oltralpe, che non saprei se preferire come attore o come regista. Comunque sia, l’operaio edile in conflitto con un figlio che in reatà ama profondamente lascia un’impronta marcata e piena di disperata naturalezza, oscillando tra buon senso e ambiguità, collera e rassegnazione. La sorpresa e forse l’emozione più forte mi è però venuta dal libraio omosessuale e melomane Adrien Dussart interpretato da uno strabiliante Jacques Dufilho, attore abituato a ruoli leggeri e talvolta comici, che in questo film rivela un inatteso talento come interprete drammatico del personaggio più saggio e più onesto dell’intera vicenda. Il suo monologo quando scopre Bruno e Catherine rinchiusi nell’appartamento dove si sono iniettati eroina sono un momento di alta arte recitativa, di quelli che ti colpiscono dritto al cuore per il trasporto, l’autenticità dei sentimenti, la lucidità e la foga con cui si lascia andare.

Ecco dunque un film perfetto da ogni punto di vista, una perla nella carriera di Claude Sautet, un’opera poco conosciuta in Italia, ma che raccomando con forza ai non pochi estimatori di questo magnifico regista.

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