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Café Society

Regia di Woody Allen vedi scheda film

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La recensione su Café Society

di michemar
7 stelle

È l’ennesima puntata della sterminata scrittura alleniana di cui non vediamo (per fortuna) la fine. Ci rendiamo conto tutti che il periodo d’oro è lontano e forse chi lo stima tanto fa fatica ad ammettere che non tornerà più: ma vi sembrerebbe normale che Woody rimanesse sempre ai livelli di Settembre, Un’altra donna, Hannah e le sue sorelle?

Non so se ciò che sto scrivendo sarà una vera recensione oppure una serie di considerazioni sul film e su quello che il logorroico Woody Allen continua a porgerci sullo schermo, puntualmente ogni anno, tanto che mentre noi commentiamo Café Society lui sta girando un altro lungometraggio di cui forse neanche è stato deciso il titolo. È un’ulteriore testimonianza dell’esuberanza scritturale che contraddistingue la vita di Woody, come se nell’ultima opera che completa gli rimanga ancora tanto da raccontare. Anche se tutti i suoi film mai sono ripetitivi e mai ritorna su un racconto già sviluppato, i suoi temi di fondo non lo abbandonano in alcuna occasione: le relazioni difficoltose e solo momentaneamente armoniose tra uomini e donne, le difficoltà di provare un sentimento definitivo, la paure del futuro sia di rapporto a due che nella vita in generale, l’importante incidenza della sua estrazione ebraica tipicamente newyorkese, uno sfondo socio-politico sempre presente mai invadente ma sempre influente. Inoltre da quando, lungo i 51 anni di attività con ben 53 opere tra cinema e televisione, si è fatto più o meno da parte come attore (l’ultima sua apparizione consistente in un suo film riguarda Scoop), ha preferito farsi sostituire da altri attori che però ha utilizzato come alter ego, incarnendone lo spirito più intimo. E ciò indifferentemente dal sesso del protagonista, tant’è che in Blue Jasmine la straordinaria Cate Blanchett ne è stata la perfetta incarnazione in versione femminile, con tutte le sue personali fobie, crisi esistenziali, insicurezza e (come poteva mancare?) logorroicità prorompente. Parole tante parole frasi citazioni sentenze, tutte recitate con la gestualità delle braccia (non è un marchio di Woody?) e balbettamenti che se chiudiamo gli occhi lo immaginiamo lì, al posto della Blanchett o di Larry David, il Boris di Basta che funzioni, il film che secondo me rappresenta il perfetto attuale Woody invecchiato.

 

Jesse Eisenberg

Café Society (2016): Jesse Eisenberg

 

Café Society è l’ennesima puntata della sterminata scrittura alleniana di cui non vediamo (per fortuna) la fine. Ci rendiamo conto tutti che il periodo d’oro è lontano e forse chi lo stima tanto (a cominciare dal sottoscritto) fa fatica ad ammettere che non tornerà più: ma vi sembrerebbe normale che Woody rimanesse sempre ai livelli di Settembre, Un’altra donna, Hannah e le sue sorelle, per non parlare di Alice, Manhattan, Interiors, Io & Annie - tralasciando la produzione più comica ancora precedente - per dare dimostrazione di tutta la genialità di questo enorme cineasta? Non sono d’accordo con chi in questi giorni sta ferocemente criticando Allen, perché il film è secondo me superiore a certi suoi ultimi e in più ha il grande pregio di essere un omaggio scintillante alla Hollywood ruggente degli anni ’30, dove nulla era fermo e gli studios quasi non riuscivano a reggere il ritmo delle produzioni. Tutti incontravano tutti, tutti avevano qualcosa da dire a tutti e non necessariamente per telefono, perché tutti incontravano tutti gli altri nelle eleganti e affollatissime serate organizzate tutte le sere in casa – o meglio nelle mega ville – di quel produttore o di quel regista. Era una Hollywood splendente, scintillante, dove anche chi stava rallentando il suo giro d’affari faceva finta, come vediamo fare a Phil Stern (Steve Carell) lo zio del protagonista Bobby (Jesse Eisenberg), di ricevere continuamente telefonate dai divi più acclamati per (di)mostrare la propria importanza e influenza nel mondo che contava.

 

Woody Allen, Vittorio Storaro

Café Society (2016): Woody Allen, Vittorio Storaro

 

Come fare per realizzare e dare risalto a quel mondo a parte così sfavillante? Tecnicamente erano necessari due passi epici per un autore come Woody (lui, così affezionato alle modalità tradizionali) e quando trapelarono a suo tempo le prime indiscrezioni tutti i critici e i giornalisti del ramo ne furono stupiti: la camera digitale in 4K e la chiamata sul set di Vittorio Storaro! Due novità che saltano subito all’occhio durante la proiezione e che trovano sbocco in una fotografia altrettante sfavillante tanto quanto il mondo che Woody ci vuole mostrare. Oltre alla perfetta nitidezza dell’immagine, è affascinante osservare cambi di scena e di ambienti esaltati dai colori e dalla fotografia di Storaro: abbagliante risultano così gli sfarzosi abiti lunghi bianchi della protagonista Vonnie (Kristen Stewart) nell’assoluto giallo ocra che domina la scena. È in realtà un salto, ripeto, epico per un uomo come il Nostro che non ama scossoni nella vita e trascina la sua arte lungo binari conosciuti e sicuri e i risultati sono stati ben evidenti.

                     

Kristen Stewart, Steve Carell

Café Society (2016): Kristen Stewart, Steve Carell

 

Ancora una volta è una storia ordinaria che ci racconta Allen, occasione ulteriore per parlare di un giovane che vuole tagliare il suo cordone ombelicale dalla solita famiglia ebrea di bassa levatura: appartamento modesto, papà perennemente in canottiera, mamma brontolona e super ansiosa ma efficacemente acida nelle sue stilettate verbali, fratello maggiore che naviga comodamente nell’ambiente gangster del Bronx, sorella ciarliera sposata con un marito più colto del resto della ciurmaglia. Il giovane Bobby in fondo è un nerd degli anni ’30, un goffo giovanotto, con le sue manie e i suoi dubbi esistenziali e sin dall’inizio non è che si riveli proprio una cima, come si coglie dal fatto che non percepisce affatto che il famoso ricco zio Phil non lo riceva nel suo studio semplicemente perché non gradisce il suo arrivo a Los Angeles. Ma come tutti i giovani crescerà e si farà, imparando a sue spese la vita e a conoscere le donne. A cominciare dalla bella e misteriosa Vonnie che fa la segretaria dello zio. Ovvio che Bobby è ancora una volta Woody. Stavolta non balbetta (nel doppiaggio italiano qualche volta sì (?) forse pensano che sia necessario nelle sale nostrane, mah!) ma indeciso spesso lo è e Woody lo adatta anche fisicamente: lo rende un tantino imbranato nei movimenti, incassando maggiormente le spalle di Jesse Eisenberg, facendolo camminare incerto. Tutto ciò almeno fino a quando Bobby acquista sicurezza nella vita e allarga il modo di vederla e affrontarla, tanto da entrare, una volta tornato nella sua città natale, nel giro di affari del fratello maggiore, arricchitosi anch’egli con metodi loschi e che sa convincere chi entra in affari con lui con offerte diciamo convincenti, che non si possono rifiutare insomma. Diventa infatti manager di un night club di grande successo e la vita gli si apre, mentre quella sentimentale va a singhiozzi tra l’antico sentimento per Vonnie e la bellissima moglie Veronica. Già, due Veronica nella sua vita.

Jesse Eisenberg

Café Society (2016): Jesse Eisenberg

Blake Lively

Café Society (2016): Blake Lively

 

Abbracciati continuamente dalla irresistibile musica jazz di quegli anni, seguiamo le considerazioni filosofiche che il regista ci spiattella tramite i suoi personaggi, con battute riuscitissime (“È uno sbaglio per la religione ebraica non avere un ‘aldilà’ come i cattolici, lo sai quanti clienti in più avrebbe?”), altre meno (“Il lavoro non ricambiato uccide più gente in un anno della tubercolosi”) oppure “Per Socrate una vita non analizzata non vale la pena di essere vissuta.” “Ma una vita analizzata non è un affare!”). Ma la botta finale arriva con una delle solite amare considerazioni che tanto piacciano al regista-filosofo-pessimista: “ La vita è una commedia, scritta da un sadico che fa il commediografo!” Ebbene sì, Allen è ancora in grado di creare situazioni e scene imbarazzanti e paradossali che hanno sempre caratterizzato la sua carriera, come quella in cui l’imbranato Bobby riceve in camera una prostituta e poi non conclude nulla a causa di una serie di particolari inaspettati: la ragazza è troppo giovane e impaurita, è al suo debutto nel mestiere (!), salta fuori che anche lei è ebrea e ciò diventa piuttosto un pretesto per lui per rinunciare, il tutto con una serie di battute veloci e acide, respirando un’atmosfera di umorismo se non nero almeno grigio. E si finisce la sequenza con un sorriso amaro, che poi è quello che secondo me Allen cerca di ottenere.

 

Jesse Eisenberg, Kristen Stewart

Café Society (2016): Jesse Eisenberg, Kristen Stewart

 

La trama ci dice quindi della ricerca di affermazione di una persona nel mondo e non è la prima volta per un film di Allen: il/la protagonista come sempre insicuro cerca la sua strada nella vita e durante questo tentativo incontra anche l’amore, che però lo deluderà. Insomma ci risiamo con i temi preferiti, che sono sempre le riflessioni amare sulla vita, l’amore, il sesso, le donne. E nessun altra persona di sesso maschile ha mai saputo scrivere nella storia del Cinema meglio di Woody Allen di donne e dei loro problemi esistenziali.

Parker Posey

Café Society (2016): Parker Posey

 

Nulla da eccepire sulla regia: Allen è troppo navigato e conosce il suo mestiere alla perfezione. Lo si può criticare per l’opera in sé ma non sul suo operato, esaltato in questa occasione da una fotografia abbagliante. Gli attori sono apprezzabilissimi, a cominciare da Jesse Eisenberg, il quale avendo ben capito ciò che doveva rappresentare - e cioè Woody stesso - si è calato perfettamente nei panni e con la sua andatura insaccata e insicura, con quella espressione che non dimostra quasi nulla, attratto dalla vita della High Society divistica e combattuto tra due donne. Non esaltante invece a mio parere la prova di Kristen Stewart, superata quindi dalla bella presenza scenica di Blake Lively che è in forma smagliante. Performante e in piena salute il contributo di Steve Carell, ottimamente nei panni dello zio Phil Stern, bravo come sempre. Non è ovviamente il migliore film di Woody Allen, inutile ripetercelo: ma questo è il Woody di oggi che però riesce tuttora a dire la sua nonostante i vari pareri dei critici delusi, i quali si attendono evidentemente ancora chissà che, senza pensare che se questo film portasse un’altra firma scommetto verrebbe giudicato molto meglio.

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