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Café Society

Regia di Woody Allen vedi scheda film

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La recensione su Café Society

di nickoftime
8 stelle

Un po' come succede quando si guarda a quello di Ken Loach anche il cinema di Woody Allen tende ad essere sottovalutato per quanto riguarda gli aspetti tecnici e formali, dimenticandosi che il regista newyorkese per sua stessa ammissione ha cercato di colmare le proprie lacune nell’uso del mezzo tecnico affidandosi ad alcuni dei migliori professionisti del settore e tra gli altri a direttori della fotografia come Gordon Willis (“Manhattan”) Sven Nykvist (“Crimini e misfatti”) fino al compianto Carlo Di Palma (“Mariti e Mogli”) che hanno contribuito a rivoluzionare le caratteristiche dell'immagine cinematografica."Cafe' Society” il nuovo film del talentoso ottuagenario ne è la conferma perché accanto alle qualità di scrittura e della direzione degli attori ad emergere con un'evidenza maggiore delle ultime volte e' il contributo visuale fornito dal grande Vittorio Storaro. Compagni di viaggio in quella magnifica avventura che fu il cinema della New Hollywood, Allen e Storaro non si erano mai incontrati sul set di un film. L'occasione viene loro offerta dalla possibilità di portare sullo schermo la storia di Bobby Dorfman, ebreo newyorkese che negli anni trenta si trasferisce a Los Angeles con la speranza di sfondare nel mondo del cinema grazie all'aiuto dello zio produttore e nel frattempo si innamora della giovane segretaria che gli fa da guida per le vie della città. Considerato che ad un certo punto Bobby e' costretto a fare marcia indietro ritornando nella grande mela dove aprirà un night club di successo e si consolerà con un altra donna che diventerà sua moglie "Cafe Society" aveva le carte in regola per stimolare le genialità dell’inedito sodalizio.

 

Per il regista in particolare l’ambientazione, dislocata tra due metropoli che da sempre rappresentano gli antipodi artistici e culturali dell'universo alleniano, dava modo alla scrittura di pescare a piene mani nel divertente manicheismo che contraddistingue il dibattito interno al suo cinema, con Los Angeles come al solito frivola e falsa e popolata da persone e in particolare dalla gente del cinema che pensa solo agli affari e non perde occasione di fregare il prossimo e New York, a erigersi come modello di segno opposto, talmente ospitale e accogliente da essere simpatica anche quando si tratta di far sparire il vicino di casa troppo molesto o uomini d'affari un po' troppo zelanti. Inoltre le caratteristiche sociologiche di quei collettori di stravaganze e mondanità che furono la Hollywood degli anni d’oro e la società dei caffè e dei ristoranti alla moda frequentati da Bobby calzavano a pennello con la propensione al ritratto epocale tipica del nostro regista.

 

 

 Allen dunque partendo dal legame sentimentale e molto romantico che unisce Bobby e l'amata Vonnie ragiona sui limiti delle cose umane e sul concetto dell'amore eterno provando a essere meno pessimista del solito  (e anche un po' meno spiritoso) sui destini delle vicende umane. Per l’occasione il regista rispolvera quel misto di sfacciataggine, ingenuità e buone maniere con cui la scrittura del prolifico cineasta si diverte a fare e disfare i sogni dei suoi protagonisti a cui gli interpreti offrono talento mimetico (Jesse Eisenberg nervoso e ) e calcolata spontaneità (Kristen Stewart, irresistibile nella parte della ragazza delle porta accanto). Ad aumentare il plusvalore di “Cafe Society” ci pensa però Vittorio Storaro; il quale non solo convince Allen a girare il suo primo film in digitale, cosa che ai tempi d’oggi non sarebbe un granchè se non fosse che per gli abitudinari del regista il cambiamento si prospetta come una vera e propria trasgressione (per non dire dello straniamento conseguente dal contrasto tra la pulizia della risoluzione visiva e il clima vintage derivato dai costumi e scenografie) ma riesce a influenzarne l’estetica conferendo all’immagine una profondità di campo e una spazialità (grazie al movimento a tutto campo della macchina da presa e in particolare della steadycam, che nelle intenzione degli interessatiesprime il punto di vista del narratore esterno) mai vista prima d’ora nell’opera del regista. Se poi aggiungiamo la scelta di definire le due metropoli secondo cromie inizialmente opposte - quella di Hollywood sono calde e soleggiate, mentre New York appare più luminosa e sgargiante- e poi gradualmente sempre più equilibrate (secondo uno stilema tipico utilizzato da Storaro) non si fatica a dire che il contributo del nostro artista è determinante per la riuscita di un lungometraggio che si pone ai livelli più alti tra quelli realizzati da Allen in questo scorcio della sua carriera.

(icinemaniaci.blogspot.it)

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