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Café Society

Regia di Woody Allen vedi scheda film

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M Valdemar

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La recensione su Café Society

di M Valdemar
3 stelle

 

locandina

Café Society (2016): locandina

 


E proprio mentre Woody Allen concreta/inscena la materia di cui sono fatti i sogni, chiudendo sui volti smaccatamente vaganti nell'altrove di Jesse Eisenberg e Kristen Stewart - burattini senz'anima disegnati coi pastelli dell'infante capriccioso a cui hanno fatto un dispetto -, appare, cristallino, il senso ultimo e unico di Cafè Society: il popolare cineasta newyorchese ha ancora qualcosa da dire? E il suo cinema attuale, possiede altra funzione oltre a quella di placare, evidentemente, la sua voracità cronica, finanche esistenziale?
Interrogativi retorici, riflessioni irrilevanti, arrovellamenti onanistici di chi, banalmente, si trova nella condizione di rovistare tra cataste ammuffite di arredi scenici in disuso e residui della gloria che fu. Come un cane da tartufo annoiato in mezzo a un'assolata distesa d'erba.
Il nulla.
Ma imbellettato bene, benissimo, riempito come si conviene (scenografie, costumi, ricostruzione di ambienti); e l'alta professionalità delle maestranze tecniche si riassume e sostanzia nella fotografia "magicamente" analogica di Vittorio Storaro: il risultato, a metà strada tra il patinato e il nostalgico aggressivo, è un insieme stucchevole di quadretti fasulli, con la giustificazione/(auto)investitura dell'omaggio alla Hollywood degli anni trenta.
Ovvero, la variante di turno che offre ad Allen l'ennesima occasione di spacciare il suo (stanco) Verbo e gli irrefrenabili impulsi citazionisti e dialogici (ma è decisamente meno scoppiettante di quanto si possa pensare; ed anni luce distante da, per esempio, La maledizione dello scorpione di giada), di srotolare il suo consunto tappeto di verità buono per tutte le stagioni («La vita è una commedia scritta da un commediografo sadico» ... mancava giusto la didascalia in sovrimpressione: "Attenzione, momento riflessivo!").

Di sentenziare, infine, e come sempre, sulla vita, sull'amore e la vita di coppia, sulla dorata industria di celluloide («malvagia» ... oibò), sulle nevrosi dell'uomo dominato dagli eventi (stampate sulla perfetta replica Eisenberg), sugli stereotipi ed emblemi di religione e cultura ebraica.
Battute, e sentenze, a parte, l'intrigo sentimentale al centro di Cafè Society appassiona come un documentario sulla riproduzione dei ricci di terra. Ma, d'altronde, poco importa (della storia, del triangolo, dell'accessorio sottotesto criminale, dell'opacità dello sguardo, delle conclusioni).
A conti fatti, l'ultima fatica alleniana è una lunga, stantia suite jazz che ripete sino allo sfinimento uno spartito, copiato qua e là, mandato a memoria.
Potrebbe, il buon Woody, andare avanti all'infinito (si fa per dire): come se ogni suo film fosse il compitino dello scolaro diligente, lo sviluppo di una traccia libera, scelta a caso, per scommessa e disperazione. Tanto il copione è sempre lo stesso.

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