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Dilili a Parigi

Regia di Michel Ocelot vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Dilili a Parigi

di shadgie
8 stelle

Michel Ocelot torna a incantare con i suoi disegni bidimensionali, vivacizzati da una sovrapposizione tecnica e tematica, in una storia che interseca realtà e voli fantastici

scena

Dilili a Parigi (2018): scena

 

Ocelot, classe 1943, condivide parte della biografia artistica e professionale con molti animatori della sua generazione: alcune serie televisive negli anni ‘80 e ‘70 e poi l’approdo al lungometraggio, assai più tardivo, dopo numerosi viaggi ed esplorazioni non solo letterarie e prima di inusuali collaborazioni (il videoclip per Bjork Earth intruders). Nato vicino Nizza e in costante contatto con il sud del mondo, espleta le sue suggestioni artistiche e pittoriche con il primo film animato Kirikù e la strega Karabà, il cui successo darà vita a due seguiti, ma è riconosciuto anche per Azur e Asmar, fiaba che tenta la fusione tra la tradizione narrativa occidentale e quella mediorientale.

Le figure di Michel Ocelot sono, anche in quest’ultima opera, vere e proprie figure, sagome non materiche che si stagliano su scenografie quasi completamente immobili, animate solo dal passaggio degli esseri umani e non. Una bidimensionalità ricercata, che trascende il semplice rifiuto della computer grafica (già attiva e in crescita ai tempi del primo Kirikù) ma che inscrive piuttosto nell’anelito narrativo: i personaggi sono come le essenze in movimento estratte dalle pagine di un libro, da un quadro, da una pittura rupestre, vivificati dal soffio della parola, dal suono e dalle storie che hanno urgenza di mostrarci.

Con un movimento di macchina all’indietro scopriamo presto che l’Eden splendente di verde e di natura in cui si aggira la piccola Dililì, kanaka alle prese con una vita primitiva insieme agli adulti del suo villaggio, altro non è che un quadro vivente delimitato da una recinzione, al di là della quale si accalcano gli occhi curiosi del pubblico parigino. La protagonista è dunque l’attrice di una sorta di presepe vivente o meglio di uno zoo umano, forse un’aberrazione per i moderni, ma una volta uscita dal suo quadro vive un’esistenza assai inconsueta: è assistita, curata ed educata da una nota personalità socialista dell’epoca, la signora Louise Michel (siamo tra il 1889 e gli inizi del ‘900), restituita ai nostri occhi con tratti realistici direttamente traslati dalle fotografie in bianco e nero.

 

 

scena

Dilili a Parigi (2018): scena

La ragazzina, vestita di bianco e d’oro e opportunamente leziosa, con il suo delicato inchino e la sua presentazione vagamente ironica, è quindi una piccola donna curiosa ed attiva, desiderosa di partecipare alla vita del suo tempo. Per farlo trova un amico insolito, il cui agire in una trama strettamente realistica ci apparirebbe come sospetto: è il fattorino tardo adolescente Orel, dagli occhi di ghiaccio, genuinamente interessato all’amicizia di Dililì ma totalmente scevro da sentimenti morbosi e inadeguati alla sua giovanissima età.

Insieme si troveranno coinvolti nel vortice di un giallo, collaboratori in un’indagine sui casi di misteriose sparizioni di ragazze giovanissime e bambine nella città di Parigi. È un vortice che necessita, almeno in parte, di un distacco dal disegno simil geroglifico che ricordiamo anche in Azur e Asmar: i volti di Orel e della bambina, sospinta nel carretto a due ruote, si animano e si incupiscono con dovizia di particolari, in una caratterizzazione che va oltre l’essenzialità perseguita altrove, e lo fanno in una città intatta e meravigliosa, miracolo d’arte e di architetture sia nei vicoli delle scene diurne che nelle grandi piazze e nella resa dei monumenti in notturna. Appare evidente l’utilizzo di immagini fotografiche accanto ad accenni di computer grafica, in veri e propri tour virtuali in una Parigi dal vero per la quale si potrebbe utilizzare in senso pieno e positivo la vecchia espressione denigratoria di “città da cartolina”. Si tratta però di una vocazione turistica nobile, di un vagheggiamento nostalgico che non stride con le accurate pitture animate degli interni, delle periferie e delle campagne “maledette”

Appare cruciale, allora, anche l’utilizzo delle comparse e l’interazione appassionata e originale che i due hanno con gli intellettuali parigini dell’epoca: un giovanissimo Picasso abilmente caricaturizzato, così come i colleghi fauvisti, la raggiante e languida Sarah Bernhardt, la cantante d’opera Emma Calvè, vera e propria coprotagonista, che stupisce Dililì con un primo vero abbraccio, effusione ignota alla piccola. È proprio nel palazzo della splendida e altera diva che la realtà così vicina si trasfigura, prima in un’immensa piscina al chiuso illuminata da luci azzurre e poi in un’esplorazione delle fogne cittadine

C’è una parte della città, o forse dell’umanità, che fa il tifo per Dililì e per le ragazze scomparse e si coalizza armoniosamente intorno a lei, a tratti divertendola ed estasiandola con ripetuti, sovrabbondanti omaggi all’arte, alla letteratura, alla politica e alla storia. Sono tantissimi i personaggi citati, fino al punto che è quasi impossibile ricordarli tutti. Quest’umanità dipinta da colori poco ombreggiati, a misura dei bambini che guardano, si contrappone allora nettamente agli antagonisti, la società dei Maschi Maestri. Di giorno questi esseri si confondono tra uomini distinti vestiti di nero, quel nero così bizzarro per l’osservatrice Dililì, ma dopo una prima iniziazione vengono promossi con un vistoso anello al naso e hanno volti grotteschi, ingialliti, adunchi. Non sopportano le donne e le bambine, e il loro piano e le relative motivazioni atterriscono nella loro stolta assolutezza, scoperchiata e sconfitta in modo eroico da un connubio di umanità e visioni avveniristiche, come il gigantesco dirigibile che si staglia nel cielo blu, in partenza dalla giovane Torre Eiffel. I Maschi Bianchi, terribili e ridicoli insieme, hanno però appoggi anche ai “piani alti”, ad esempio tra le alte cariche della Polizia.

scena

Dilili a Parigi (2018): scena

Inquietante è il loto trattamento delle bambine (e delle donne, rapite in passato) prigioniere nel mondo sotterraneo, costrette a muoversi a quattro zampe, accecate da un sacco nero che le riduce ad esseri larvali, impotenti, assoggettate ad un potente indottrinamento.

Dililì affronta la sfida per riappropriarsi anche un po’ di sé, della sua crescita incerta, degli sguardi pungenti dei suoi connazionali che la giudicano “troppo bianca” e dei francesi che la vedono invece “troppo nera”, riportando allo stesso tempo al centro il discorso su un cammino inesorabile della storia che forze occulte (ma non troppo) vorrebbero riportare insieme, cammino fatto di emancipazione femminile e dell’infanzia. Gli accenni disturbanti ai possibili risvolti della storia si disperdono, cautamente e in modo fluido, rendendo il film meno stratificato ma maggiormente fruibile per un pubblico di giovanissimi, per i quali resteranno negli occhi la pedalata collettiva delle bambine in cielo, verso i propri cari, e le variopinte coreografie finali, oltre alla guida di un’eroina vispa e spontanea, mai realmente dimentica del suo essere bambina.

Voto: 7,5

Età consigliata: dai 6 anni

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