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Wiener-Dog

Regia di Todd Solondz vedi scheda film

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La recensione su Wiener-Dog

di Peppe Comune
8 stelle

Come regalo per essere guarito da una grave malattia, il piccolo Remi (Keaton Nigle Cooke) riceve dal padre (Tracy Letts) un cane bassotto. Ma la madre (Julie Delphy) non è tanto contenta della cosa, perché toccherà a lei ripulire ogni volta che il cane avrà “ricoperto di merda il pavimento”. Si decide di sterilizzare Bassottina, e Remi chiede insistentemente il perché. Dawn Wiener (Greta Gerwig) lavora in uno studio veterinario dove si sta per iniettare una siringa letale ad un cane bassotto. Riesce a portarselo con se di nascosto, e lo chiama Popò. Un giorno, dopo tanti anni, incontra Brandon (Kieran Culkin), un suo vecchio amico che sembra aver superato i problemi con la droga. Decide di andare con lui nell’Ohio, portando con se il cane. Brandon va a trovare il fratello Tommy (Connor Long) e la moglie di questi, April (Bridget Brown), una coppia down che vive in beata armonia la propria disabilità. Brandon è venuto a portargli una brutta notizia. Dave Schmerz (Denny De Vito) è un professore di Cinema. Le sue sceneggiature ruotono intorno all’affermazione “e se”, ma non hanno mai riscosso un grande successo. Anche a scuola non è ben visto , risulta terribilmente noioso agli studenti, sorpassato. L’unico suo svago è quello di portare a spasso il suo cane bassotto. Nana (Ellen Burstyn) è una donna malata di cancro. Un giorno, dopo diversi anni che non la vedeva, viene a trovarla la figlia Zoe (Zosia Mamet). Vuole fare l’attrice la ragazza, ed è venuta a chiedere dei soldi alla madre. Ha un cane da compagnia Nana, un cane bassotto che si chiama Cancro. 

 

Greta Gerwig

Wiener-Dog (2016): Greta Gerwig

 

 

Todd Solondz è un autore che non mostra tentennamenti nel fare della diarrea un elemento cardine del film (c’è una carrellata sulla scia di diarrea lasciata da Bassottino davvero sublime), giocando in maniera sottilmente sardonica sul rapporto di causa-effetto tra le fobie esistenziali di disillusi patentati e i fisiologici stimoli del corpo. Oppure di iniettare i germi insani del razzismo attraverso la storia di un cane “brutto, sporco e cattivo” di nome Mohammad, che soleva violentare tutte le cagne che aveva a tiro rimanendole incinte. Storia raccontata da Dina al piccolo figlio Remi, come se si trattasse di una favola innocua, con tono affabile e gentile : per fargli capire l’utilità della sterilizzazione dei cani. E neanche di mostrare un cane imbottito di esplosivi o di creare continue assonanze concettuali tra la forma del cane bassotto e i salsicciotti che imbottiscono gli Hot-Dog (appunto “cane salsiccia” viene spesso etichettato il cane bassotto). Todd Solondz è così, un acuto osservatore delle cose americane che lui preferisce far emergere usando l’arma corrosiva della provocazione. “Wiener-dog” rappresenta un ottimo compendio di questa poetica della dissacrazione, un film ostinatamente sconsolatorio, una sinfonia dolente che sembra voler celebrare la dismissione dei migliori valori. Diversamente da altri suoi film dove al centro dell'analisi c'è la middle-class statunitense (penso soprattutto ad "Happiness" e "Perdona e dimentica", ma anche a "Palindromes" e "Storytelling" ), qui si va dritto al cuore del problema, senza alleggerire il tutto con venature grottesche. Ogni singola storia non si sviluppa molto, ma abbastanza da farci scorgere l’inaffettività che ha preso corpo nei personaggi, farci capire che il senso di morte continuamente evocato rappresenta l’anticamera del fallimento di un intero sistema di valori. Quattro storie accomunate dall’insistente presenza di personaggi spenti, apatici, assenti alla vita che varrebbe la pena di essere vissuta. E dalla presenza di un cane bassotto, l’unico elemento capace di far emergere in loro slanci di sincera partecipazione emotiva, di regalare un po’ di calore a delle vite diventate incolori. La sua calma serafica contrasta apertamente con la banale apatia dei personaggi, la sua docile accondiscendenza squarcia di nuova luce le loro sicurezze frustrate. Sembra un omologo moderno del “Balthazar bressoniano”, intento ad osservare acutamente il mondo che lo circonda, a registrare le agitazioni interiori dei suoi occasionali padroni, a offrirsi da cavia anche, fungendo da catalizzatore per le loro gioie e i loro dolori. Todd Solondz sceglie dunque di guardare la vita ad altezza di cane questa volta, rendendolo del tutto simile ai bambini e ai disabili, gli unici a cui l’autore americano affida nei suoi film le chiavi della bontà, muniti come sono di una sincerità d’animo messa continuamente in pericolo dalle scosse telluriche provenienti dal mondo degli “adulti”. É grazie alla loro presenza che qui, come altrove, nonostante una cattiveria mostrata senza censure, ci sono momenti di autentica tenerezza.

“Remi mi aiuterà, ormai non è più un bambino piccolo”, dice Danny. “E’ un dannato sopravvissuto” risponde decisa Dina, adirata col marito per aver portato in casa un cane “che riempirà tutto di merda”.  “Mamma, come si fa la cremazione ?”, chiede Remi. “Praticamente , si mette il cane in un forno”, risponde la madre. “Mi stavo chiedendo cosa succederebbe se April restasse incinta”, dice Dawn. “Non può succedere, gli hanno chiuso le tuba”, risponde Brandon. “E tuo fratello ?”, ancora Dawn. “Hanno pensato anche a lui” chiude diretto sempre Brandon. “Come stai” domanda una a telefono. “Non ho il cancro”, risponde Dave Schmertz. “C’è l’incontro con un giovane regista che è stato allievo di questa scuola, ci verresti, mi serve affluenza”, chiede la direttrice. “Verrò, occuperò un posto”, risponde calmo il professore di cinema. “Mamma faceva la modella quand’era giovane”, dice Zoe al fidanzato pittore. “Posavo nuda e spalancavo le gambe”, risponde secca Nana. Questi sono solo alcuni dialoghi contenuti in “Wiener-Dog” , dall’alto tasso di corrosività come si potrà notare. Credo, infatti, che una costante del cinema di Todd Solondz sia proprio quella di portare i dialoghi tra i personaggi ben oltre le regole tacitamente accettate del politicamente corretto. Non si tratta di semplice cattiveria, ma di acido puro dispensato a piene mani, con il quale sembra si voglia corrodere dalle fondamenta l’idea stessa di buone maniere. In mano a Solondz, è come se la macchina da presa fosse più un agente indagatore della fetta di mondo catturata dall’inquadratura che un semplice strumento di ripresa di quello che si vuole rappresentare. Più intenta a spiare furtiva che a filmare solamente. Ecco, Todd Solondz sembra spiare i suoi personaggi, ma non per creare una sorta di effetto realista da poter trasportare nei suoi film, ma per coglierli in tutta la loro nuda verità, affrancandoli da quei filtri sociali che possono mascherarne il cinismo o mitigarne il disincanto. Nel suo cinema, l’utilizzo di dialoghi corrosivi è funzionale per un analisi acuta della società americana che si vuole condurre senza veli, vestita di tutta la crudità che gli è propria. Un’analisi che è tanto più vera quanto più dirette appaiono le parole utilizzate, che stanno li, a fare chiarezza sullo stato delle cose, a non nascondere l’innascondibile, a dirigere il traffico tra le spigolosità caratteriali. A chiedere spiegazioni sulla gratuità della tristezza.   

Credo che Todd Solondz sia uno dei registi più importanti ( se non il più importante) del cinema statunitense (e non solo) contemporaneo. Di una genialità dissacratoria che a me piace molto.  

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