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Neruda

Regia di Pablo Larrain vedi scheda film

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La recensione su Neruda

di ed wood
9 stelle

Pablo Larrain si conferma fra i maggiori cineasti contemporanei, con un film che costituisce un ulteriore salto di qualità nella sua carriera, in virtù di una stratificazione di livelli e di letture propria solo delle grandi opere. “Neruda” è un oggetto complesso, poliedrico, debordante di idee ed inventiva. Tante cose insieme. Non è solo un dissacrante ritratto del poeta più amato della storia cilena. E’ anche un avvincente saggio di fanta-storia, un’allegoria politica con allusioni al presente, uno studio di caratteri, ma soprattutto una riflessione sul rapporto fra cinema e creazione letteraria. In quest’ultimo senso, “Neruda” si inserisce in quel recente filone cinematografico in cui la narrazione è frutto di un processo diegetico, ossia interno al film stesso. A questa categoria appartengono opere tanto distanti fra di loro quanto “Nella casa” di Ozon, “Nymphomaniac” di Von Trier e appunto “Neruda” di Larrain. Tutti film che, per quanto diversissimi nei contenuti, condividono fra di loro l’impostazione meta-narrativa: il racconto che si dispiega agli occhi dello spettatore è frutto della creazione consapevole (e per questo, inevitabilmente ironica) dei personaggi. E’ come se la sceneggiatura sollecitasse se stessa.

 

E così abbiamo questo inseguimento fra il poeta esiliato Neruda e il poliziotto reazionario Oscar Peluchoneau che parte da presupposti realistici e romanzeschi per poi gradualmente deviare verso la poesia, il gioco di riflessi, il ribaltamento di prospettive, la revisione delle psicologie. La caccia al fuggitivo Neruda si evolve quindi come distorta fantasia dello sbirro, via via sempre più ossessionato dalla sua preda, così inconsciamente succube del suo carisma da immaginarsi egli stesso come una creazione della penna del grande poeta, come se questo rappresentasse una sorta di riconoscimento della sua modesta figura da parte di un grande personaggio storico. Il poliziotto è un frustrato, un individuo senza talento, un grigio impiegato dello Stato, un disperato che invidia segretamente il carisma e la popolarità della sua nemesi Neruda, al punto che l’unico modo che trova per dare un senso propria esistenza è quello di ipotizzare per se stesso un ruolo nel Grande Poema Nerudiano e nella Grande Storia Cilena (come dimostra il rapporto simbolico dello sbirro con il presunto padre che non l’ha riconosciuto, il fondatore della polizia cilena: questa sua condizione di “rinnegato” non è poi così lontana da quella dell’esule Neruda). Questo discorso diventa fin troppo esplicito nel finale, in particolare nel monologo esplicativo della moglie di Neruda, e questo impedisce al film di qualificarsi come capolavoro assoluto.

 

La rappresentazione di Pablo Neruda è a dir poco dissacrante. E’ difficile vedere sullo schermo un personaggio più odioso di quello ritratto da Larrain. Il suo Neruda è il peggior radical chic immaginabile: un decadente, che si diletta in orge e bagordi, che si rivolge ai poveri ma che vive nell’agio, frequenta i salotti buoni e detesta dormire per terra, un cinico che forse è la persona meno indicata a sostenere le rivendicazioni del proletariato. Ma questa rappresentazione è ovviamente filtrata dallo sguardo del poliziotto prevenuto e tendenzioso, la cui sarcastica voce off accompagna tutto il film. E se una delle scene più toccanti e più giuste del film è quella in cui una popolana rinfaccia a Neruda le sue contraddizioni e i suoi privilegi di classe, l’obiettivo di Larrain non era propriamente quello di gettare fango sui radical chic, tanto meno sul grande poeta. La prospettiva di Larrain va oltre e ci sono un paio di scene apparentemente minori che ce lo svelano: un funzionario statale suggerisce a Neruda il titolo di un romanzo e il poeta lo ammonisce dicendogli di “non parlare di cose che non conosce”; una poverella chiede elemosina a Neruda e il poeta le regala un libro. Due momenti che chiariscono la prospettiva di Larrain in questo film: solo la poesia può salvare il mondo.

 

Da questo deriva il fatto che “Neruda” è fondamentalmente una riflessione sul “mito” e su come i media riescano a plasmarlo, e in questo Larrain si riallaccia alle opere precedenti. In “Tony Manero” il cinema hollywoodiano colonizzava l’immaginario del cileno medio; in “No” la televisione influenzava il consenso elettorale; in “Neruda” la poesia plasma la realtà e la visione del mondo, contamina le coscienze, ispira le ideologie. Questo aspetto reca con sé un risvolto ambiguo, poiché se da un lato la poesia svolge tutte queste importanti funzioni, dall’altro rischia di confinare l’autore al ruolo di mito vivente, appunto, col rischio di disinnescare il potenziale eversivo della propria arte. Neruda, in quanto intellettuale dissidente, resta un incubo per Videla e per tutto l’establishment cileno, ma è al contempo vittima di se stesso, della propria figura celebrata, idealizzata, mitizzata (non a caso viene sovente ritratto in pose fotografiche, con un fondale dipinto sullo sfondo o all'interno di una cornice, come se fosse già da vivo una figura leggendaria). Difficile non rintracciare in questa rappresentazione un riferimento allegorico al ruolo dell’intellettuale, dell’artista e del politico nella nostra epoca, quella dell’auto-celebrazione e della definizione maniacale del proprio personaggio, della popolarità/pericolosità sancita da una “rete” di individui superficiali nei giudizi (come Videla e il suo staff), schiavi del personaggio carismatico (come Peluchoneau), incapaci di un’analisi razionale ed approfondita (come il popolo di carcerati che inneggia a Neruda).

 

Stilisticamente il film ha momenti di genio. A parte la capacità di mantenere un tono ironico, brillante, grottesco dall’inizio alla fine (senza per questo pregiudicare il pathos del finale), Larrain gestisce sapientemente la dialettica fra immagini e voce off ed inventa uno spazio ubiquo, dove i personaggi proseguono lo stesso dialogo in luoghi sempre diversi, legati assieme da un montaggio virtuoso: una trovata che è la vera cifra stilistica del film e che, oltre a conferire un ritmo incalzante, specie nella prima parte, contribuisce a definire quel tono e quel tempo “decantato” all’intera opera, come se si trattasse di un saggio critico in forma di poema a metrica libera. La bellezza di fotografia e scenografia, unita alla prova memorabile di Luis Gnecco, contribuisce al fascino del film.

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