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Indivisibili

Regia di Edoardo De Angelis vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Indivisibili

di laulilla
4 stelle

Al centro della storia, il calvario di due gemelle siamesi, Viola e Daisy (le bravissime Marianna e Angela Fontana, gemelle per davvero), costrette a vivere dalla nascita collegate fra loro da una membrana fortemente vascolarizzata che univa i loro corpi lungo un’anca. Esse erano considerate (in famiglia e nella zona della Domiziana dove abitavano, fra fuochi, immondizia e prostitute), quasi la manifestazione di una straordinaria benevolenza di Dio, simili a porta-fortuna in carne e ossa, o a fenomeni da baraccone offerti dalla famiglia alla curiosità morbosa e superstiziosa dei numerosi che accorrevano e che, per vederle e poterle toccare, pagavano profumatamente. Ora, cresciute e diventate due belle ragazze, erano invitate ai matrimoni, ai battesimi e alle feste delle famiglie importanti, dove si esibivano anche come cantanti, poiché avevano una bella voce con la quale interpretavano le canzoncine molto orecchiabili e molto applaudite scritte dal padre (Massimiliano Rossi) per loro. Quel loro padre si occupava inoltre, con spirito manageriale, insieme a due zii e alla moglie (Antonia Truppo), di organizzare la loro vita “professionale”: era lui a decidere della loro presenza ai numerosi eventi a cui erano invitate, indicandone orario e programma, trattando i prezzi delle loro prestazioni, accompagnandole e riportandole a casa; era soprattutto lui a incassare il denaro e a distribuirlo fra tutti i comprimari, facendone finire ben poco però nelle loro tasche. Un padre-padrone, una presenza asfissiante al cui controllo era difficile sfuggire, soprattutto da quando su di loro cominciava a contare  anche lo spregiudicato prete locale (Gianfranco Gallo), con tanto di orecchino luccicante, non solo (forse) per guadagnare denaro, ma per ottenere adesioni e conversioni. La situazione si faceva molto pesante soprattutto per Daisy, la più inquieta delle due gemelle, che era stata lusingata e turbata da un’equivoca dichiarazione d’amore di un imprenditore locale, Marco Ferreri (Gaetano Bruno), uomo molto ricco, fra i più corrotti e viziosi.  La voglia di evasione di Daisy si era fatta più urgente allorché le parole di un un medico svizzero, colte al volo, le avevano fatto balenare la certezza che una semplicissima operazione chirurgica senza rischi, avrebbe potuto separarla da Viola con beneficio fisico per entrambe. Viola, molto insicura, era terrorizzata da una simile prospettiva; la famiglia, poi, spalleggiata dal prete, non intendeva proprio parlarne: l’ingiustizia a lungo patita, tuttavia, avrebbe fatto esplodere presto le contraddizioni insanabili e troppo a lungo ignorate.

Il regista ha saputo raccontare con finezza introspettiva il mutare del cuore di Daisy, nonché le paure di Viola e inoltre ha predisposto gli spettatori a seguire con partecipazione attenta e trepidante le lotte quasi disperate della fanciulla impegnata a rivendicare anche per la sorella i più elementari diritti umani. Il film nel suo complesso, però, non sempre mantiene questo carattere di verità psicologica: spesso la narrazione presenta uno sfondo con tratti documentaristici molto evidenti, in cui alla descrizione sociologico – ambientale della terra dei fuochi si affianca una rappresentazione antropologica ed etnologica pesantemente connotata dai cliché di un meridionalismo trucido, barbarico e selvaggio, nei confronti del quale il regista appare incerto tra la fascinazione estetizzante e la condanna morale. Nella terra dei fuochi di De Angeli convergono e convivono ancestrali e feroci superstizioni popolari (che gli abitanti locali condividono con gli immigrati africani) e il cinismo di chi pensa di sfruttarle, che sia il prete con l’orecchino, il padre schiavista feroce e torvo o il corrotto locale che vive sull’imbarcazione pacchiana fra odalische, champagne e orge. Questi mondi non sempre trovano, sul piano del linguaggio una forma espressiva coerente, che in complesso renda unitaria l’intera vicenda.

Vedendo comparire all’inizio del film il grande il logo di Medusa, qualcuno avrà pensato, come me, quanto corte fossero le gambe delle parole e degli anatemi di Paolo Sorrentino contro Fuocoammare? Il marketing aveva funzionato benissimo, ovviamente: tutti a vedere, commentare dopo aver naturalmente pagato il biglietto.
Meritavano la pena quelle dichiarazioni? Se si voleva lanciare un film, senza troppo badare ai modi e ai mezzi, ebbene sì; resta da chiedersi se il film, lanciato in questo modo spregiudicato, sia davvero tanto bello da svettare su un panorama italiano non proprio esaltante: io, per quanto poco conti, dico di no. Non credo, inoltre, francamente che un racconto così cupo e  crudele, non privo di ambigui compiacimenti, avrebbe impressionato favorevolmente i molto politically correct giurati dell’Academy.

 

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