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La signora dello zoo di Varsavia

Regia di Niki Caro vedi scheda film

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La recensione su La signora dello zoo di Varsavia

di alan smithee
3 stelle

Varsavia 1939: lo spettro delle mire espansive e dittatoriali del Terzo Reich si materializza quando i primi aerei che sorvolano la capitale polacca, iniziano a bombardare punti tattici anche nel centro abitato, incuranti della salvaguardia della popolazione innocente.

Non rimane immune a questa violenza nemmeno lo zoo cittadino, gestito con amorevolezza da una coppia affiatata di coniugi, costretti a vivere nello strazio e nell’orrore di veder decimata la popolazione animale del parco, accolta in quella sede artificiale quasi come all’interno di una famiglia sui generis, ma compatta per affiatamento e complicità di rapporti.

Distrutti dal dolore per la perdita di esemplari stupendi, spesso anche rari, allevati sin dalla nascita in cattività e quindi quasi addomesticati, i coniugi vengono infine anche sensibilizzati dalla problematica rappresentata dall’evidente furioso atteggiamento repressivo adottato dagli invasori nei confronti della comunità ebraica, relegata in poco tempo alla condizione di carcerati o vere e proprie bestie da sfruttamento, accalcate entro recinti e costruzioni invalicabili e ridotti in condizione di puro precario sostentamento, tra freddo e malattie incombenti.

Approfittando della vicinanza di uno dei campi di concentramento con lo zoo, dotato quest’ultimo di seminterrati e cunicoli ove venivano ospitati alcuni generi di animali nelle ore notturne, i due coniugi finiranno per rendersi protagonisti del salvataggio di un gran numero di perseguitati, occultati proprio nello zoo, nel contempo trasformato in un allevamento di maiali destinati ad alimentare le truppe militari.

La vicenda, tratta da un fatto vero, come tiene meticolosamente e didascalicamente a precisare il film poco dopo i titoli di testa - circostanza che, in sé, non promette invero nulla di buono - viene affrontata dalla regista neozelandese Nikki Caro con una convenzionalità di narrazione tale da rendere sin scellerati certi inevitabili accostamenti che non si può fare a meno di notare tra continue iniziali ostentate dolcezze così poco “da ambiente in cattività”, ma più alla “Mulino bianco”, riservate agli animali (quel parto dell’elefantino effettuato dalla protagonista-crocerossina quasi con respirazione bocca a bocca è una scena da denuncia!), e poi l’atteggiamento indulgente e retorico riservato alla ben più drammatica situazione riservata agli ebrei perseguitati.

Siamo dalle parti del fazioso “La ladra di libri” di qualche anno fa, dove l’atteggiamento edulcorato e melenso della rappresentazione finisce per puntare solamente, o in modo soverchiante, sulla sensibilità epidermica, e dunque tutta esteriore, dello spettatore, senza riuscire effettivamente a fare breccia sulla effettiva drammaticità di una situazione politica ed umana senza precedenti, come effettivamente ci insegna la storia.

Creando un effetto quasi ricattatorio ove, sempre restando in superficie, finisce per farci più tenerezza l’uccisione brutale, ma non certo posta lì a caso, del cucciolo di cammello che gigioneggia salterellando e zigzagando allegramente ovunque ad inizio film dietro una Chastain in bicicletta, piuttosto che prenderci a cuore la sorte dei molti deportati, magari vecchi, malati e decisamente meno fotogenici di certe specie rare di animali selvatici, sovraesposti in atteggiamenti fotogenici e suadenti da pubblicità di pet food.

Per Jessica Chastain, che ha dimostrato sino ad oggi di  gestire molto oculatamente la sua brillante carriera di star, questo è il primo clamoroso passo falso. La affianca, nel ruolo per lui non inusuale di persona infida e dal volto cangiante, un prevedibile Daniel Brul, all’interno di una operazione che punta all’emozione facile, puerile, districandosi tra personaggi piuttosto monocordi, tutti inequivocabilmente bravissimi o cattivissimi, ma completamente privi delle inevitabili necessarie sfumature atte a rendere credibile la complessità dell’appartenere alla razza umana, di fronte al degenerare incontrollato della violenza più repressiva e sanguinosa.  

 

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