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Arrival

Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film

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La recensione su Arrival

di lussemburgo
9 stelle

Arrival con Sicario, il precedente film di Villeneuve, condivide un impianto strutturale comune, con una figura femminile scaraventata in un universo maschile in circostanze eccezionali dopo un episodio drammatico ed emotivamente sconvolgente. Della protagonista lo spettatore assume il punto di vista, più oggettivato in Sicario e più interiorizzato nel nuovo opus, con una natura circostante che si fa romanticamente riflesso di inquietudini o sensazioni e una regia aderente al fulcro narrativo con movimenti di macchina ricorrenti (la panoramica orizzontale su sfondi aridi in Sicario, verticale dall’alto al basso e con un leggero carrello in avanti dall’interno all’esterno in Arrival) e uno stile di ripresa adeguato al racconto. Se Sicario si sporgeva in direzione della dinamica del thriller, Arrival si sposta verso sguardi emotivi, ricordi e sensazioni con una voce off di supporto che, volutamente, sembrano rimandare agli stilemi recenti del cinema di ricerca passionale e contemplativo di Terrence Malick, comprendendone anche le divagazioni escatologiche. Film di sottrazione e senza abuso di trucchi, Arrival mette in scena incontri ravvicinati del terzo tipo ponendo al suo centro la comunicazione, il linguaggio come arma e strumento, ed è fondato su un voluto malinteso semantico in cui l’introduzione si fa conclusione e il tempo del racconto diventa malleabile nella sua convenzionalità, con procedimenti non dissimili da quelli messi in serial da Lost. L’adesione al punto di vista della protagonista, solitaria professoressa di linguistica comparata incaricata di decifrare le forme di comunicazione di alieni atterrati in 12 diverse (e forse apostoliche) navi sulla Terra, è tale da permettere una confusione completa delle inquadrature con i suoi pensieri e da lasciare aleggiare un dubbio sulla natura stessa della percezione suggerita, sulla sua qualità di costrutto astratto o di deviazione dalla oggettività. Ma è il senso stesso del film questa ricerca di una definizione e descrizione del mondo attraverso il linguaggio, e di come questo ne determini la percezione e la comprensione, la sua interpretazione definitiva che non è mai del tutto collettiva bensì sempre personale. Il film si crea attorno ad un malinteso cronologico e sintattico che diventa il nucleo del suo racconto, che ricrea il processo affabulatorio della traduzione di un testo in immagini e di figurazioni in scritti comprensibili, e, in senso lato, la transustanziazione del pensiero in parole coerenti. Perché l’apparizione degli extraterrestri, inaspettati e imperscrutabili come modeste divinità, sono il preludio ad un’epifania conoscitiva, di una rivelazione della parola che, biblicamente, crea letteralmente l’universo e lo relativizza nominandolo. In una caverna artificiale, figure seminascoste si agitano in una nebbia che tinge di biancastra foschia una larga vetrata divisoria dalle proporzioni di uno schermo cinematografico. Dalle due parti del divisorio trasparente, due razze tra loro alienate dalle differenze linguistiche cercano una progressiva intesa sulle relative intenzioni, tentano di comunicare guardandosi a vicenda per raccontare se stesse. Nel recupero del mito platonico e della dialettica fantascientifica di un eventuale ultimatum alla Terra, il film guarda gli astanti osservarsi e infine parlare mentre l’approdo finale si cortocircuita con l’abbrivio del racconto, in un moto circolare che rimanda alla stessa forma della comunicazione scritta degli alieni. Tutto torna e ritorna, nella storia personale dei personaggi e nell’impianto narrativo, con una coerenza limpida quanto diafana, ammantata dall’evanescenza di brume che offuscano la completezza dello sguardo ma amplificano la visione e scavando nel melodramma dei sentimenti alla ricerca di una completezza amorosa inarrivabile. Tempo e spazio si annullano in ricorsi, storici e narrativi, e se la memoria ripesca le assonanze con Interstellar, la solitudine umana del film di Nolan si traduce in quello di Villeneuve in un tentativo di ponte linguistico tra specie lontane, e, pur introducendo un analogo, straziante dilemma genitoriale, nello stile lo studio del perfetto assioma logico del britannico lascia al canadese l’agio dell’indeterminatezza e della poesia: pur rifacendosi entrambi all’esempio kubrickiano dell’odissea spaziale e al suo rigore registico, il primo ne sposa la freddezza espositiva mentre il secondo predilige il calore della sua incerta e, pertanto, ineffabile, conclusione.

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