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Il falò delle vanità

Regia di Brian De Palma vedi scheda film

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La recensione su Il falò delle vanità

di Decks
6 stelle

Il talento di De Palma non viene messo in dubbio, ed è l'unico aspetto che riesce a tenere a galla il film. Indifendibile dal lato narrativo in cui è la faciloneria a farla da sovrana. Una vera occasione mancata date le buone considerazioni sociali, ma messe così e in queste condizioni non supera la sufficienza.

Era il 1987 quando per la prima volta sulla rivista "Rolling Stones" usciva quello che ad oggi è ancora il più famoso romanzo di Tom Wolfe: "Il Falò delle Vanità". Ad una prima occhiata potrebbe sembrare che lo scrittore di Richmond abbia voluto riscrivere in chiave moderna la vicenda perpetrata dal monaco Girolamo Savonarola nel 1497, ma al contrario, l'obbiettivo di Wolfe non era tanto una rilettura in chiave storica quanto una forte critica alla politica reaganiana tipica degli Stati Uniti di fine anni '80.

I nuovi ricchi e i cittadini comuni si scontrano in un conflitto di classe in cui Wolfe non prende le parti di nessuno, colpendo duramente qualsiasi personaggio, primario o secondario che sia, criticando apertamente l'edonismo e l'ipocrisia imperanti.

 

 

Hollywood che ha sempre usato la moda del momento per ricavare grossi guadagni, dopo pochi anni dal grande successo di questo best-seller cercò qualcuno in grado di effettuare una trasposizione cinematografica: la scelta ricadde su Brian De Palma che aveva dimostrato di essere un autore con la "a" maiuscola e reduce di successi quali "Gli Intoccabili" e "Vittime di Guerra".

Egli sembrava essere la persona giusta per dirigere questo lungometraggio e non posso negare che io, come i produttori, ebbi grosse speranze per questo film.

Il risultato? Un enorme flop ai botteghini e io stesso ne sono rimasto ampiamente deluso. Ma andiamo con ordine:

 

Innanzitutto l'operazione di adattamento da romanzo a copione non è facile, ed è ancor più arduo farlo con un successo letterario che migliaia di persone hanno letto da pochissimo tempo, sarà, quindi, praticamente impossibile soddisfare tutti i lettori.

Affidare, quindi, un compito così delicato come la stesura di una sceneggiatura a Michael Cristofer è un errore madornale che si ripercuote per tutta la durata del lungometraggio.

Cristofer non è mai stato un campione di originalità e il suo lavoro è piuttosto mediocre e semplicistico; il suo tentativo (in questo caso) è quello di raffazzonare più materiale possibile dal libro; prendere un po' di tutto e mescolare bene, ecco qual è la formula di Cristofer: purtroppo col cinema c'entra poco e nulla, perchè il rischio è quello di ritrovarsi con un copione che infila forzatamente tutto in tempi limitati e facendo perdere mordente alla storia. Ed è proprio questo il principale difetto del film: abbiamo sequenze che corrono a destra e a manca inscenando un altissimo numero di personaggi secondari e sottotrame che è risulta quasi inevitabile perdere il filo; in più, si perde anche il contatto e una delle parti fondamentali dell'opera di Wolfe, cioè la caratterizzazione dei personaggi principali.

Ciò che andrebbe insegnato a Michael Cristofer è che un buon sceneggiatore dovrebbe sapere cosa, quando e dove tagliare ciò che in un film risulta superfluo rispetto alla versione cartacea, e a giudicare dai suoi lavori successivi ("Breaking Up", "Original Sin") sembra non abbia mai imparato la lezione.

 

 

Ciò che ne viene fuori, purtroppo, è un enorme insalata dove le tematiche si sprecano ma nessuna di queste è mai approfondita. Fortunatamente, dietro la cinepresa non vi è un novellino: De Palma salva il salvabile da questo copione disastroso e malgrado la confusione ciò che ne viene fuori è un interessante quadro di una società falsa e ambigua completamente allo sbando.

Dunque, se la pellicola non è un fallimento è soprattutto grazie alla regia, che meriterebbe da sola cinque stelle; di una sofisticatezza unica, con un De Palma che gira brillantemente qualsiasi scena senza mai sbagliare un tempo o un virtuosismo.

Qui ci si potrebbe sprecare in continui elogi sui numerosi movimenti di macchina, quindi mi limito ad elencare quelli che io personalmente ho preferito ma ce ne sarebbero a bizzeffe:

- il piano sequenza iniziale che segue passo dopo passo tutte le mosse di Fallow, quasi kubrickiano in un certo senso, riesce a mostrarci la doppiezza della celebrità, qui rappresentata da un premio pulitzer che dietro le quinte altri non è che un tronfio ubriacone;

-lo scatto di nervi di Sherman McCoy durante il party nel suo super-attico ove la regia si fa sempre più claustrofobica e ridondante facendoci provare una forte empatia con il protagonista e la sua isteria alla quale non si può più trattenere. L'impeto furioso che ne scaturisce è una liberazione sia per noi che per McCoy.

 

Ed a proposito del cast: è un peccato notare di come siano state tarpate le ali a Bruce Willis e Tom Hanks che se avessero avuto il giusto spazio sicuramente avrebbero potuto darci delle rappresentazioni migliori di quanto non siano.

Già interpretare un personaggio complesso come McCoy è piuttosto ostico, figurarsi dover fare tutto in tempi così brevi per far sì che persino le sequenze più marginali abbiano un loro momento. Se però Hanks in un modo o nell'altro riesce a renderci una parvenza del grandioso McCoy letterario, non vale lo stesso discorso per Willis: completamente tralasciato, non riesce mai a incidere a causa del poco tempo concessogli, pare quasi forzato nella storia nonostante si vedesse che si trovava a suo agio nel ruolo datogli.

L'unica che si salva e fa la migliore figura è Melanie Griffith: essa è l'unica che non faccia rimpiangere la sua controparte letteraria, ed oltre a recitare magnificamente (al punto tale che persino lo spettatore si ritroverà persuaso dalle sue parole fintamente dolci e dalla sua bellezza) è perfettamente attinente alle tematiche della storia: una donna cinica, materialista e lunatica modellata da una impietosa società moderna.

Una nota di merito va data anche ai costumi di Ann Roth, che grazie alla loro pertinenza e alla regia di De Palma riescono a farci immedesimare molto più di qualsiasi dialogo nell'atmosfera tipica degli anni '80 newyorkesi, basti guardare la varietà e l'ottima fattura dei vestiti che indossa Melanie Griffith sul set per farci un'idea dell'ottimo lavoro della Roth.

 

 

Il talento di De Palma non viene messo in dubbio, ma è l'unico aspetto che riesce a tenere a galla un film che altrimenti sarebbe stato un fiasco totale. Indifendibile dal lato narrativo in cui è la faciloneria a farla da sovrana, senza riuscire ad analizzare decentemente gli argomenti veramente importanti dell'opera letteraria.

Una vera occasione mancata, che è difficile e anche sgradevole valutare viste le buone considerazioni sociali che possiamo trovare nelle numerose sequenze ma messe così e in queste condizioni non supera la sufficienza.

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