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Sole cuore amore

Regia di Daniele Vicari vedi scheda film

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La recensione su Sole cuore amore

di MarioC
7 stelle

La triste corsa dei cappottini rossi. Se in Spielberg quel capo di abbigliamento si faceva icona di storia (di una tenerissima storia personale che diventava universale), quell’accessorio colorato portato con fatica e dignità da Isabella Ragonese rappresenta, in Sole cuore amore, la bandiera di un destino quotidiano, di una lotta con la necessità (non con l’arte) di arrangiarsi, di sopravvivere finché fiato regga. Film imperfetto, quello di Daniele Vicari, film asfittico, di loquacità muta, che programmaticamente rinuncia alla leggerezza (se non nella naturalissima, meravigliosa recitazione della sua attrice principale) ed intavola un discorso complicato, su temi poco battuti dal recente cinema italiano, carino e piacione, religiosamente devoto al lieto fine, alla quadratura del cerchio, all’artefazione dell’ottimismo. La vita ai tempi del precariato, la famiglia ai tempi del lavoro nero, l’amore ai tempi sfalsati delle sveglie mattutine. Roma-Ostia e viceversa. La coazione a ripetere di una travet dei viaggi bui, di una maratoneta che ha quale meta ultima il regalare sorrisi, il regalarsi una gioia che sa sfuggirle giorno dopo giorno. E che infatti vedrà terminare la sua corsa senza nemmeno intravedere la possibilità di un traguardo, stremata dal dover essere, dal saper fare, dalla abitudine a rinunciare (ma anche al non poter rinunciare, quando avvenimenti lo impongano), dalla consapevolezza triste che hanno gli ingranaggi di una macchina che di quegli stessi ingranaggi può fare tranquillamente a meno.

 

 

Intorno ad Eli (sin dal nome tronco mera ipotesi di donna che, nonostante i piccoli sorrisi del quotidiano, possa dirsi realizzata) brulica un’umanità che ha quale unico scopo il tirare avanti, provando a riconoscersi, cercandosi incessantemente. Il datore di lavoro (non è cattivo, è solo un derelitto), la collega extracomunitaria che ha sulla pelle il triste marchio dell’alterità, la clientela con cui scherzare, affinché le lancette corrano più in fretta (o al contrario vadano più lentamente, scacciando lontano l’incubo del ritorno, negli antri neri di una metro, tra i sedili di un autobus dissestato, tra le nebbie umide e le luci che non riposano), un marito ed i figli, tatuaggi della propria speranza, compagni di vita, di quella vita che si va erigendo come meglio si può, coscienti delle ineffabili tragedie pronte ad aggredirla (e dei sensi di colpa per un lavoro che non arriva, o per un lavoro troppo lontano che pure diventa obbligo ineludibile). Soprattutto l’amica del cuore (una sorella), specchio in cui riflettersi, antipodo di stile di vita, porto sicuro in cui riversare lacrime, abbandoni, confidenze, ricerche di sé. Nel delineare il personaggio di Vale (altro nome incompiuto, come la psiche di chi la porta, come quella sessualità che genera non voluta, non ambita confusione) Sole cuore amore un po’ arranca. Arranca perché sposta, sia pure solo apparentemente, il cuore del discorso, il suo nocciolo: dalla esasperante ripetitività di un lavoro non performante alla meccanica perfezione di una performance di danza, mera coreografia, illusione di compiutezza, gioco di ombre tutte esteriori. Benché il fine ultimo del regista sia il medesimo,  illustrare la inespressività di quei gesti che si autoalimentano, in un rituale uniforme (paradigmatica la scena iniziale, con la giustapposizione dei movimenti delle amiche: danza da un lato, volteggi idonei a servire cappuccini e cornetti dall’altro), le scene che vedono protagonista Vale risultano un po’ pleonastiche, come se i piani narrativi, paralleli e portatori del medesimo senso, non riuscissero ad amalgamarsi sino in fondo. Un po’ come accade nel finale: altra giustapposizione (stavolta di movimento e fissità agonica) che appare tuttavia venata da quella retorica espressionista sino ad allora ben dominata dal regista.  Resta il richiamo all’attualità, punto di forza silenzioso e innegabile; resta il coraggio di osare un discorso sul coraggio di uomini e donne il cui coraggio nessuno si prenderà la briga di raccontare, scoprire, tantomeno analizzare (il cappottino rosso, nota di colore in un mondo buio, popolato da un'umanità che non vede, daltonica con i suoi simili); resta la colonna sonora, che non è il sassofono che punteggia le scene: è il respiro di Isabella Ragonese, sempre più affannoso, afono, in debito di aria ed ossigeno. Un respiro che batte come un cuore malato, che pure ha l’amore ma è incapace di vedere il sole.

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