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Star Trek Beyond

Regia di Justin Lin vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Star Trek Beyond

di lussemburgo
7 stelle

Al terzo capitolo della reinvenzione della serie spaziale, Abrams, impegnato nella regia della saga fantascientifica più amata, lascia le redini a Justin Lin, reduce dai successi di vari Fast & Furious (nonché dei primi episodi della seconda stagione di True Detective). Il cambio di guardia comporta alcuni cambiamenti, al di là di una voluta ed esibita continuità con la traccia di Abrams (rimasto produttore) da cui il nuovo regista eredita l’impianto complessivo. La regia si fa più pirotecnica, con la macchina da presa tendente a girare su se stessa (ma senza il vibrato tipico delle riprese di Abrams), e il montaggio più frenetico (e faticoso per la stereoscopia), mentre la sceneggiatura perde il gioco con i modelli classici precedenti (Il futuro ha inizio azzerava letteralmente l’intera serie; Into Darkness rifaceva L’ira di Khan), sebbene la caduta dell’Enterprise riecheggi il terzo capitolo cinematografico (Alla ricerca di Spock). Il film, inoltre, contiene riferimenti ad Entreprise, l’ultima versione televisiva del franchise, con accenni alla guerra con gli Xindi e al vascello Franklin, andato perduto in quella versione e qui ritrovato. Soprattutto, Star Trek: Beyond (come già suggerisce il titolo), rispetto alle pellicole che lo precedono, abbandona la Terra, che era sempre rimasta lo sfondo concreto dei primi due film (minacciata dall’implacabile romulano o dal terrorista terrestre mutante), per spostarsi nello spazio profondo, vicino ad un avamposto spaziale, Yorktown, che rilegge, in una versione tecnologicamente avanzata, la stazione Deep Space Nine dell’omonima declinazione seriale di Star Trek, un luogo di sperimentazione di pace interspecie che, qui, ha le fattezze di una metropoli dallo sviluppo escheriano di piani convergenti ed è la versione, simile e contraria perché utopica e pacifica, della Morte Nera dell’altra saga. E della prospettiva anomala della città astrale, senza gravità lineare e con confusione degli orizzonti, del sopra col sotto, Lin sembra fare un motivo ricorrente, sia negli interni devastati dell’Enterprise attraversati dall’equipaggio che negli attacchi tridimensionali della flottiglia di navicelle che colpiscono da tutte le angolazioni, con cui replica una gestione dello spazio che si ritrova anche nel ruotare ripetuto della macchina da presa che ribalta gli assi cardinali. Quelli narrativi, al contrario, rimangono costanti, con un equipaggio che soffre del risalto di alcuni (Kirk su tutti) sull’ensemble drama di origine televisiva, con l’eterno riavvio della saga (dopo la chiusura del primo film che ripercorreva la sigla della serie classica, e la nuova puntata iniziale nel secondo film, ripromesso adesso nel terzo con la riconferma di Kirk al comando) che si vorrebbe serializzata ma rimane autoconclusiva in ogni capitolo. Di derivazione televisiva è anche l’eccesso nell’uso di protesi facciali per la differenziazione delle specie; ma è proprio quando la prostetica viene meno e il viso della nemesi di turno (Idris Elba) si fa leggibile, che il film acquista un certo spessore, riportando però l’intero complesso narrativo ad una semplice vendetta, motivo ricorrente di tutta la serie in ogni suo puntata. L’ellisse su alcuni fatti è il motore delle ripresa del racconto seriale, che qui si riassumono con la crisi nella coppia Uhura-Spock (con moltiplicazione esponenziale del famoso effetto di scandalo inter-razziale della serie originale, diventato inter-specie) e l’usura del comando di Kirk, per natura ribelle (e per ideale giovanile inconcludente), oltre all’accenno ad un matrimonio maschile per Sulu (con omaggio all’interprete televisivo del personaggio). A questi dettagli si aggiungono ricorrenti riferimenti alla continuity di Abrams, recuperandone l’attore portafortuna (Greg Grunberg) e accumulando citazioni che accentuano l’idea di pronunciata serialità già stabilita nei precedenti film. Il doveroso omaggio al vero Spock da parte del nuovo (con la reale dipartita dell’iconico Leonard Nimoy), rievoca il paradosso temporale da cui è ripartito il reboot; l’avventura d’apertura in stile Bond (o Indiana Jones, che lo replica consapevolmente) con la conclusione di una vicenda precedente prima della definizione di quella raccontata (e che ne definisce i termini di sviluppo: qui i negoziati con un popolo ostile e il recupero di un manufatto bellico prezioso): l’episodio iniziale, come nel primo capitolo, è un vero e proprio avvio di racconto, con il reperto alieno che diventa fulcro dell’attacco all’Enterprise. Inoltre, l’utilizzo di musiche “classiche” (ovvero brani rock contemporanei per gli spettatori) rimanda anch’esso all’esordio firmato da Abrams (ancora Sabotage dei Beastie Boys), da cui riprende anche i temi musicali di Giacchino, ma riecheggia anche il finale di Mars Attacks! con la canzone che disturba e distrugge gli alieni. Esaurito l’impulso innovativo dei primi due film, Star Trek (in attesa di una nuova serie tv, retrodatata però rispetto alle vicende del reboot, quindi facente parte della linea temporale classica) deve trovare un equilibrio nella sua volontà di serializzazione e nei tempi di produzione cinematografici, fare i conti con la vera perdita di un membro fondante del cast (Anton Yelchin) e trovare una strada autonoma tra l’eredità decennale della varie serie derivate dall’idea iniziale di Roddenberry e le nuove e coeve space opera della Disney, sia Marvel (Guardiani della Galassia) che Lucas (Star Wars e spin-off vari), tra i sogni degli Anni Sessanta e la tecnologia di oggi, il mito della frontiera e la paura dell’ignoto, ormai entrambi così profondamente americani.

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