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Final Portrait - L'arte di essere amici

Regia di Stanley Tucci vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Final Portrait - L'arte di essere amici

di yume
8 stelle

“Il silenzio, sono qui solo, fuori è notte, tutto è immobile e il sonno mi riafferra. Non so né chi sono né quello che faccio né quello che voglio, non so se sono vecchio o giovane, forse ho ancora qualche centinaio di migliaia di anni da vivere fino alla morte, il mio passato si perde in una voragine grigia.” (Alberto Giacometti)

locandina

Final Portrait - L'arte di essere amici (2017): locandina

Stanley Tucci alla sua quinta regia si ispira ad una biografia di James Lord (1922-2009) scrittore americano amante dell’arte e amico di Alberto Giacometti.

A Giacometti Portrait, scritto in occasione di una retrospettiva dell’artista al MoMa di NY nel 1965, fu pubblicato solo nel 1986 in Inghilterra e nel 1997 in Francia. In Italia è arrivato nel 2004.

I giudizi sul libro e sul suo autore non sono lusinghieri, vari aspetti della storia di Lord come uomo e critico d’arte lasciano dubbiosi e perplessi sulla qualità del rapporto che lo legò a Giacometti, e basta una piccola ricerca in rete su siti accreditati per scoprirlo.

 

Qui però l’interesse è circoscritto al film, si tratta cioè di vedere se e quanto Final Portrait (la coda italiana, L’arte di essere amici, è decisamente fuori registro) riesca a dire di un artista tra i più grandi del secolo scorso ricostruendo, di quel breve frammento finale che precedette la morte avvenuta nel 1966, le voci e gli umori, le figure che lo popolarono e gli amori, le amicizie, gli affetti e i dispetti che ne furono la sostanza umana.

A visione conclusa non pensiamo di Giacometti più di quanto le sue opere non ci abbiano sempre raccontato, ma quella solitudine di corpi prosciugati e scarnificati, in cammino nella vita nonostante tutto, forse riusciamo a capirla un po’ di più.

Il cinema è la favola che suggerisce, immagina, dà sfondo alla vita e la popola di cose e persone. Poco importa se sia tutto vero.

E dunque questo è ciò che ha fatto Stanley Tucci, non un capolavoro ma la storia di un capolavoro, il ritratto finale di un artista per un amico, un quadro che chiuse una vita nata per l’arte “…una figura seduta che mostra la presenza assertiva di un faraone egiziano, e una corona lambente di vernice grigio argenteo che proietta l'aura di un Cristo in cieloin maestà.”

(in christies.com/muse)

 

E proprio su questa qualità che potremmo definire “sacrale” suggerita dalle figure di Giacometti può essere utile leggere quanto diceva uno dei suoi critici più accreditati, Reinhold Hohl:

 

“Questi busti sembrano autoritratti piuttosto che ritratti dei modelli. Benchè i loro occhi siano penetranti essi non sembrano guardare verso chi li osserva né prendere atto della loro presenza. Pare che essi trapassino lo spettatore e che il vettore dei loro sguardi congiunga l’interno delle loro teste con un’altra realtà.

Essi dominano quanto li circonda con la loro esistenza, non esistono più in uno spazio immaginario bensì nel nostro stesso spazio. Essi non solo riempiono lo spazio ma di fatto creano le relazioni spaziali circostanti.

Come le più grandi sculture religiose del passato – per esempio la Pietà Rondanini di Michelangelo – questi busti impongono a quanto li circonda l’aureola di uno spazio privilegiato e forse si può perfino dire sacro.

 

e ancora:

 

“Giacometti non aveva più bisogno di composizioni metaforiche per esprimere il potere mitico insito nei suoi ultimi busti di Diego e di Elie Lotar 1964-65…

Come nelle novelle di Samuel Beckett c’è soltanto un “io” narrante nel punto focale dello spazio e del tempo che non è correlato con alcun mito ma che incessantemente racconta la propria storia e il proprio mito. un “io” la cui esistenza è priva di senso, a meno che lo stimolo a pensare, parlare, disegnare, dipingere, modellare, vedere, coltivare interessi, amare non sia inteso come la forza che genera il coraggio di continuare a vivere.

Questo è quanto Giacometti espresse poeticamente come la propria realtà in un breve testo del 1957, Ma réalité. Arte, realtà e mito della vita diventano una cosa sola.”

 

(Reinhold Hohl, Form and Vision. The work of Alberto Giacometti in the catalogue Alberto Giacometti, A Retrospective exhibition, The Solomon R. Guggenheim Museum, New York, 1974)

 

Armie Hammer

Final Portrait - L'arte di essere amici (2017): Armie Hammer

 

La cornice del film è una Parigi in bianco e nero alla Cartier-Bresson.

Nel 1964, durante un breve viaggio in Europa, lo scrittore americano venne invitato dal suo amico, l'artista di fama mondiale Alberto Giacometti (un Geoffrey Rush straordinariamente somigliante all’originale), a posare per un ritratto.

Le sedute saranno diciotto, poi James Lord, qui interpretato da Arnie Hammer, dovrà tornare a NY e il quadro gli sarà spedito chiuso in una cassa. Non vedrà più Giacometti che morirà l’11 gennaio 1966 in Svizzera per un arresto cardiaco.

Basteranno due o tre ore”, aveva promesso Alberto, ci vollero varie settimane e infiniti cambi di biglietto aereo per New York.

Quando Diego e Jim glielo tolsero dalle mani prima che, per l’ennesima volta, Alberto andasse col pennello largo imbevuto di acqua e biacca a cancellare il volto e rifarlo ancora, il ritratto era perfetto, ma all’artista non bastava, avrebbe continuato a rifarlo all’infinito.

Perché?

“Faccio pittura e scultura per mordere nella realtà, per difendermi, per nutrire me stesso, per diventare più grosso”.

E’ una risposta, ma forse non basta.

 

Tucci ha costruito un ritratto di Giacometti che lavora ad un ritratto, sembrano cerchi concentrici che ruotano intorno ad un unico centro, la verità della vita esteriore e la verità dell’arte.

In un gioco continuo di rifrazioni mette a fuoco quella che fu la ricerca costante di Giacometti, fino alla morte: rendere un’immagine non come oggetto ma come forza viva, qualcosa che si trasformasse da semplice materia o segno iconico in figura viva che rendesse attiva la partecipazione di chi guarda.

 “Realismo fenomenologico” fu la definizione coniata ad hoc, l’imperativo per lui era imprimere alle sue figure uno sguardo simile alla vita, non fare di esse un doppio del modello reale.

 

Final Portrait racconta un Giacometti immerso in una quotidianità fatta di fumo di sigarette, caos primigenio nello studio-abitazione al 46 di Rue Hippolyte-Maindron.

Busti e ritratti su cui continua a lavorare, argilla sparsa a terra e argilla avvolta in panni umidi perché non secchi e si possa ancora modificare, plasmare, scarnificare, cavalletti e tele vuote, il fratello Diego che prepara instancabile le anime di fil di ferro e le basi che devono tenere in piedi quei corpi che sembrano allungarsi verso il cielo, crostolosi, con le ditate sull’argilla che l’artista non si stanca mai di aggiungere.

 

E poi c’è lui, Jim, bellissimo e levigato, fatto sedere su una poltroncina sgangherata, docile, estenuato da sedute interminabili, continuamente interrotte dai fuck! di Alberto che cancella tutto e ricomincia da capo.

Jim è il corpo estraneo, eppure stranamente complementare in un mondo a parte, fatto di piccoli bistrot fumosi a Montparnasse dove s’incontravano Sartre e Camus, Beckett, Jenet e Aragon, e le modelle di Picasso, Matisse e Chagall inventavano la donna nuova, e Caroline, il folle, giovanissimo, ultimo amore dell’artista, viveva la vita lieve e rumorosa delle muse celebri.

 

 

Geoffrey Rush, Armie Hammer

Final Portrait - L'arte di essere amici (2017): Geoffrey Rush, Armie Hammer

Le strade erano lucide di pioggia, il vento sollevava i lembi degli impermeabili leggeri degli uomini, l’atelier era invaso dall’incredibile caos che regna dove vive un artista, un uomo che diceva di sé “… io sono un fragile palazzo costruito e sempre ricostruito con fiammiferi … e quei fiammiferi, sparsi sul pavimento, isolati qua e là, come navi da guerra sul grigio oceano…

 

Se c’era ancora un attimo della sua vita di uomo e di artista da indagare era appunto questo, il tempo di diciotto sedute di posa che James Lord accettò di fare, lusingato e incuriosito, per un ritratto infinito, qualcosa che sembrava non dovesse mai arrivare ad una conclusione.

Due uomini totalmente diversi e un’amicizia insolita, che si cementa lungo un processo creativo a cui assistiamo come ad un rito sacro, misterioso, incomprensibile a mente umana.

 

Diego, il fratello saggio, paziente, braccio destro e spesso modello di Alberto, e James, l’amico giovane che ha per l’artista sessantenne un affetto incondizionato, silenzioso e devoto, vivono in simbiosi con quest’uomo rude, capriccioso, mai contento di sé. ma capace di creare legami indissolubili.

E poi le donne, due, Caroline, giovane, folle, l’ultima amante e modella e Annette, la moglie di sempre, quella che gli pulisce lo studio e che vorrebbe un cappotto nuovo e una casa decente.

Sylvie Testud

Final Portrait - L'arte di essere amici (2017): Sylvie Testud

Vita da bohème, anche se mazzi di banconote arrivano in buste di carta da pacchi dalle grandi gallerie. A lui il denaro non importa, lo nasconde qua e là, ne regala ai protettori di Caroline, le compra la macchina rossa.

 

Sami Frey, Claude Brasseur

Bande à part (1964): Sami Frey, Claude Brasseur

La corsa di Alberto, Caroline e Jim con la rossa cabriolet  per le strade del centro e  della periferia di Parigi è la stessa dei tre bohémiens di Bande à part.

 Si respira Nouvelle Vague e questa è una delle poche scene a cui Stanley Tucci concede il colore.

Caroline voleva una Ferrari rossa dal suo amante, e lui le avrebbe dato anche la vita.

Colore ce n’è anche per il cappotto nuovo, giallo, di Annette, la moglie tenera e dolorosa, accanto a lui fino alla morte, l’unica capace di sopportare i suoi umori e le sue sigarette infinite.

In questo mondo a parte non c’è bisogno di molte parole, Diego è stato il suo modello fin dai primi anni della giovinezza, James sarà il suo ultimo ritratto, in lui Alberto ha visto un’immagine che doveva riprodurre a tutti i costi, ma il processo creativo è un percorso accidentato, a volte doloroso, impossibile dare un tempo, una scadenza.

Geoffrey Rush

Final Portrait - L'arte di essere amici (2017): Geoffrey Rush

 

L’artista sessantenne, precocemente invecchiato ma più che mai vitale, minato nel corpo ma sempre ironico, innamorato del mondo (“ Mi sorprende l’uomo della strada, più di ogni scultura o dipinto. Ad ogni momento la folla scorre incessantemente per riunirsi e allontanarsi di nuovo. Senza posa forma e riforma composizioni viventi di incredibile complessità. Ed è proprio la totalità di questa vita che desidero riprodurre in ogni cosa che faccio” ), eppure capace di rendere tangibile la solitudine dei corpi nello spazio procedendo per sottrazione continua, fino a scarnificarli, lasciando solamente lo scheletro alle sue figure avvolte dal vuoto, quest’uomo volle un amico, lo trattenne vicino a sé fino all’estenuazione, camminò con lui per le strade di Parigi, fra le tombe degli artisti del Père Lachaise  e dentro i locali affollati del quartiere latino a bere fino a stordirsi, non si dissero tante parole ma vissero un legame che andava oltre ogni ragionevole convenzione.

Furono vicini, per un po’, e poi silenzio.

 

 www.paoladigiuseppe.it

 

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