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Mean Streets

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Mean Streets

di Widmark
10 stelle

Prima. Prima di diventare uno dei grandi di Hollywood. Prima di sentirsi tale. Prima di inseguire l’ambito Oscar. Prima di piegare (in parte) il proprio genio alle esigenze dello Star system. Prima di tutto questo, che faceva Martin Scorsese? Semplice: dirigeva b-movies. B nei costi, ma non nel merito. Perché lo spirito d’intraprendenza, il coraggio, l’eccesso, persino la perversione che i suoi primi film trasudano ne testimoniano la grandezza più e meglio dei kolossal seguenti, fastosi ma rigidi, sfarzosi ma artificiali, con più razionalità che cuore. Martin Scorsese ci ha fatto capire cosa sia uno stupro in Casinò, ma non ha mai più girato scene tanto erotiche quanto quelle fra Keith Carradine e Barbara Hershey in Boxcar Bertha. Ci ha illustrato le pene d’amore in The Age of Innocence, tuttavia nessun Robert De Niro ha più lasciato sul marciapiede un’altra Cybill Shepard in un secondo Taxi Driver. Ci ha descritto magnificamente il mondo della piccola malavita in The Godfellas, eppure non ha mai più dato vita a un nuovo Mean Streets. Ecco. Chi scrive pensa che Mean Streets sia questo: l’incandescente fucina scorsesiana per i futuri successi. Il dramma-laboratorio per i suoi trionfi osannati. L’apoteosi del suo immaginario, filmico e non. Forse non tutto funziona, ma è fisiologico in un affresco estremo. Abbiamo una Little Italy pulsante, viscerale, ossessiva, gli horror di Corman nei cinema e fiumane popolari che innalzano Madonne e intonano “Faccetta Nera”. Troviamo locali asfittici, interni fotografati al rosso sangue, nei quali esplode improvvisa la ferocia, quella dei fratelli Carradine (in una sequenza davvero pulp) e delle risse al biliardo. Scopriamo il perbenismo dei piccoli padrini – su tutti Cesare Danova – che tramano ai tavoli dei bar e l’unica violenza che tollerano è in televisione, la morte di Jocelyn Brando in Big Heat. Godiamo, soprattutto, di un cast straordinario, con De Niro squilibrato, ghignante e sopra le righe, e un Harvey Keitel così misurato, così sottile da rubargli la scena. Nonché Amy Robinson, brava e sexy per la naturalezza con cui mostra il corpo, bella e antidiva, bella perché antidiva, niente a che vedere – ad esempio – con la Cameron Diaz di Gangs of New York, che interpreterebbe una prostituta ma si guarda bene dal rovinarsi il trucco. E poi, ovviamente, la fede che si fa costume, il tormento spirituale, la follia dei reduci, il peccato, la carne e l’incesto. Per sfociare in un finale, brutale e sanguigno ma senza catarsi, come forse nessuno proporrebbe oggi. Si ha l’impressione che da allora Scorsese, novello Thomas Mann, abbia preferito celebrarsi, anziché raccontarsi. E forse è un peccato. Ricordate in Godfellas la geniale carrellata in soggettiva nel night, sulle note del «Cielo in una stanza»? Mean Streets non è una carrellata, ma una corsa affannosa, angosciata, parossistica. Però più autentica. Davvero non vi cogliamo quella patina algida, quel distacco sofisticato e dissimulato nella forma che ha soffocato The Aviator e appesantito The Departed. Insomma, qui c’è la vita e non la magniloquenza, i Ronnettes brutti e urlati di «Be My Baby» al posto dei virtuosismi lirici di Ornella Vanoni. E la convinzione – preziosa – che la scintilla del talento risieda nella sfrontatezza con cui si guarda negli occhi la Gorgone, scavando con onestà nei propri“dark places”. Voto: 9 (*** 1/2 su ****)

Sulla trama

Ottima, benché non coincida con quella di Film Tv...

Su David Proval

Validissimo caratterista, ingiustamente dimenticato.

Su Amy Robinson

Splendida.

Su Harvey Keitel

Il migliore.

Su Martin Scorsese

Acerba, ma audace. Indimenticabile la carrellata sul viso di Keitel nel night.

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