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Brimstone

Regia di Martin Koolhoven vedi scheda film

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La recensione su Brimstone

di supadany
6 stelle

Venezia 73 – Concorso ufficiale.

L’olandese Martin Koolhoven dirige un’importante coproduzione europea, con cast ancor più internazionale, che racchiude al suo interno parecchio materiale, tra omaggi, espliciti o interpretabili, influenze di generi disparati, calibrazione in una realtà distante nel tempo di aspetti oggi più che mai al centro dell’attenzione e una costruzione dell’arco narrativo che rifugge le regole più classiche.

Purtroppo, questa ricchezza di opportunità non va d’accordo con l’equilibrio generale, ma soprattutto contiene eccessi che rischiano seriamente di essere considerati gratuiti.

Verso la conclusione del XIX secolo, la giovane Liz (Dakota Fanning) vive tranquillamente con suo marito e due figli in un piccolo paese quando l’arrivo di un reverendo (Guy Pearce) cancella la parola pace dalla sua vita.

Questa figura tenebrosa ha già avuto a che fare con lei parecchio tempo addietro ed è disposta a tutto pur di raggiungere il suo scopo che per Liz e famiglie non prevede possibilità di salvezza.

 

 

Operazione ambiziosa che rivisita il western ibridandolo con tinte assai drammatiche e dosi di violenza che sopraggiungono al volgere di momenti tensivi.

Strutturato sulla base di quattro capitolo (Apocalisse-Esodo-Genesi-Castigo) che deviano dall’ordine naturale degli eventi - scelta che imprime alla vicenda una cadenza che pare essere più indicata rispetto a uno sviluppo tradizionale (oltre che aspetto strutturale che mescola elementi e influssi) – Brimstone non è certo un titolo che passa inosservato.

Fin da subito è intuibile l’importanza del reverendo, uomo implacabile e violento che piega la parola di Dio alla sua volontà deviata, una figura che rappresenta il fondamentalismo religioso più cieco e occludente, che ci rammenta quella particolare capacità dell’uomo di manipolare il volere sacro per fini portando un dolore inumano al prossimo senza alcun scrupolo, un aspetto che possiamo chiaramente traslare, anche su ampia scala, ai tempi che stiamo vivendo attualmente.

E, come ancora capita quotidianamente di assistere, la figura della donna è subordinata, qui a livello di essere inferiore sottoposto esclusivamente a obblighi e abusi; Liz è comunque una donna guerriera, che, con il passare del tempo, trova dentro di se il coraggio per lottare fino in fondo, per se stessa e per i suoi affetti messi a repentaglio.  

Due macro argomenti che nobilitano la pellicola così come il contesto, che in buona sostanza prevede un confronto tra un uomo e l’accoppiata madre-figlia - qui vi è una generazione in più per essere precisi - anche grazie ad alcune scene (come accade verso la fine su uno specchio d’acqua) ricorda per certe tensioni Lezioni di piano. Riferimento comunque quasi scomodo per un film che ha il suo principale nervo scoperto in altri territori, come la natura violenta dell’uomo, e che presenta alcune irregolarità (di troppo), tra semplici eventi di forte effetto, costruiti rischiando di offrire l’effetto opposto a quello desiderato (ovvero, invece di sconvolgere, far trapelare un dubbio distraente) e disseminati anche lungo gli snodi topici quando una vicenda del genere, con più attenzione, avrebbe potuto diventare letteralmente incendiaria.

Se qualcosa non funziona, soprattutto nella sceneggiatura, come nella rappresentazione di alcuni dei passaggi cruciali, dal cast giungono note sostanzialmente positive; Guy Pearce riesce a trattare con il male in prima persona, estraneo a ogni buon senso, mentre Dakota Fanning tratteggia la figura di una donna obbligata ad anticipare i tempi (per autonomia, sacrificio e spirito decisionale), mettendo in risalto una tenacia che va oltre il terrore che l’affligge. Per entrambi, è un’interpretazione considerevole, al netto dei sovraccarichi presenti, mentre una mortificata Carice Van Houten segna uno scarto generazionale nelle reazioni concepibili e le meno famose Emilia Jones – quasi una controfigura di Elle Fanning – e Carla Juri segnano la prevalenza femminile all’interno della pellicola (invece Kit Harington non incontra particolare gloria).

Così, tra pregi e difetti, Brimstone appare un lavoro esplicito e ambivalente, dal quale sono ricavabili più tematiche interessanti, solo un po’ troppo squilibrato e pericolosamente in bilico sul crinale dell’attendibilità per poter ottenere una considerazione più appagante.

Tosto, smisurato e discontinuo.

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