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In guerra per amore

Regia di Pierfrancesco Diliberto vedi scheda film

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La recensione su In guerra per amore

di Peppe Comune
5 stelle

New York, 1943, piena  seconda guerra mondiale. Arturo (Pif) e Flora (Miriam Leone) sono due  giovani  innamorati. Ma lei è stata promessa come a Carmelo (Lorenzo Patanè), figlio di un boss italo-americano.  L’unico modo che ha di sposare Arturo, è quello di ricevere il consenso direttamente dal padre che vive ancora in Sicilia. Per arrivare sull’isola, lo squattrinato Arturo decide di arruolarsi nell’esercito americano che proprio in quel periodo sta preparando lo sbarco in Italia. Arrivato in Sicilia, conosce il tenente Philip Catelli (Andre Di Stefano), un ufficiale che non vede di buon occhio come il generale Patton (Forest Baker) sta gestendo i rapporti con i malavitosi locali. Ad aiutarlo a ritrovare il padre dell’amata Flora, lo aiutano Saro (Sergio Vespertino) e Mimmo (Maurizio Bologna), un cieco e uno zoppo che vivono di espedienti. Due poveracci che si muovono praticamente in simbiosi, simbolo di una terra in ginocchio.

 

 

Miriam Leone, Pierfrancesco Diliberto

In guerra per amore (2016): Miriam Leone, Pierfrancesco Diliberto

 

Al cinema tutto è possibile, anche rendere credibile l’incredibile. Questo è uno degli assunti fondamentali del linguaggio cinematografico, una delle premesse fondative su cui poggia tutto il fascino che sa esercitare la settima arte. Ma rendere credibile l’incredibile, soprattutto quando non ci muoviamo all’interno di certo cinema cosiddetto di genere che ha come specifica caratteristica proprio quella di superare il limite della verosimiglianza (fantasy, fantascienza, horror), presuppone una grande abilità nel saper equilibrare a dovere tutti gli ingredienti che compongono la messinscena di un film. Si prenda ad esempio “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica, la magnifica sequenza dei poveri in volo sulla groppa di scope è abbondantemente anticipata da una struttura narrativa che, mescolando sapientemente la riflessione sociale sulla povertà metropolitana e i toni “fiabeschi” che la sorreggono, ne giustifica tranquillamente la funzione scenica.

Tutta questa premessa per dire che in “Amore e guerra” di Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) non avviene nulla di tutto questo. Eppure, un film tutto giocato su situazioni e personaggi posti al limite della veridicità e che, per un intreccio variopinto di episodi coincidenti, confluiscono tutti in un unico quadro di riferimento, avrebbe avuto appunto bisogno di buona perizia in sede di scrittura e di regia per rendere il tutto più credibile. Se insisto sulla nozione di  credibilità cinematografica è perché mi sembra importante sottolineare che debbono sempre esserci un prima e un dopo legati narrativamente in maniera coerente a dover rendere legittima la presenza di una situazione che ha dell’incredibile. Seguiamo la strada già tracciata e prendiamo, ad esempio, la sequenza “dell’asino che vola”, non ci sono sufficienti elementi che ne giustificano prima la portata scenografica, e nulla di quanto vediamo dopo serve a supportare “coerentemente” l’incredibile visione di un asino imbracato ad un elicottero mentre viene trasportato “contro” una casa di contadini. Con Arturo in groppa all’asino naturalmente, come si evince dalla locandina del film. Una sequenza che vorrebbe essere affascinante perché spiazzante, divertire anche perché obbiettivamente straniante, ma che a me è sembrata soprattutto gratuita, perché affatto funzionale all’economia della storia.

Lo schema narrativo di “In guerra per amore” è quello già sperimentato in precedenza da Pif : attraversamento dei fatti storici con fare grottesco ; metterne in risalto i lati “oscuri” ; utilizzo invasivo della voce off (che è sempre la sua) ; atmosfera trasognata sospesa tra il disincanto e la speranza. Ma in “La mafia uccide solo d’estate” il tutto era dosato al punto giusto, facendo funzionare una storia che voleva raccontare pagine tragiche scritte dalla mafia attraverso la coscienza ancora vergine di un bambino, e meritandosi perciò l’appellativo di film originale per il modo in cui veniva trattato il fenomeno mafioso. Qui, invece, tutto mi è sembrato palesemente forzato, mancante della necessaria fluidità narrativa.

Il boss mafioso che vuole il meglio per il figlio, il figlio aspirante boss che aspira alla mano della bella, la bella che, per sottrarsi a questo ricatto e sposare il mite ragazzo, deve ricevere il permesso direttamente dal padre siciliano, il mite ragazzo che per andare in Sicilia si arruola nell’esercito americano che sta per sbarcare in Italia, lo sbarco che lo porta proprio vicino al paese del padre della bella, i mafiosi siciliani che devono impedire al mite ragazzo di portare a termine il compito per cui è arrivato fino in Sicilia. E ancora, gerarchi fascisti riabilitati, criminali scarcerati, una statua di Mussolini e un’altra della Madonna che si contendono l’ingresso al rifugio durante i bombardamenti, una madre con il figlio che spera nel ritorno del marito. Tutti gli elementi sono messi in un unico quadro di riferimento, collegati tra di loro seguendo anche una propria conseguenzialità narrativa, ma dosati troppo artificiosamente, con scarso senso del ritmo. Senza coerenza poetica.

Non servono a risollevare le sorti del film, l’aver voluto ricordare come gli americani si affidarono ai malavitosi locali per penetrare pacificamente in Sicilia e come a loro lasciarono la gestione politica del territorio (il fatto storico a cui si riferisce il film è il rapporto Scotten del 1943, inviato dall’ufficiale in servizio in Sicilia direttamente al presidente Roosevelt) ; l’aver mostrato (seppur fugacemente) il ruolo inestinguibile per le sorti dell’Italia di personaggi come Lucky Luciano e Michele Sindona (le origini della "trattativa" dunque) ; le prove sorprendenti dei due grandi caratteristi Sergio Vespertino e Maurizio Bologna, volti molto noti in Sicilia, una coppia d’attori che si è dimostrata veramente ben amalgamata.  Detto altrimenti, non è sufficiente la presenza del classico tema sociale “da poter portare nelle scuole” per salvare un film. Ma è necessario che tutti gli ingredienti che lo compongono siano armonizzati con coerente equilibrio narrativo. In definitiva, ritengo che “In guerra per amore”, più che brutto, è un film mal riuscito.     

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