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In guerra per amore

Regia di Pierfrancesco Diliberto vedi scheda film

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La recensione su In guerra per amore

di M Valdemar
3 stelle

 

locandina

In guerra per amore (2016): locandina

 



Pif.
Puff.
Scoppia la bolla nella quale avevamo un po' tutti rinchiuso Pierfrancesco Diliberto al suo fortunato esordio: In guerra per amore è un atto secondo confuso e infelice, un ensemble mal ragionato di forzature e faciloneria diffusa, una continua pantomima elementare che gioca facile ma è uno di quei giochi a cui guardi con la tenerezza che si riserva all'individuo non proprio acuto che racconta (male) una barzelletta vecchia e usurata.
Utilizzando elementi, retorica e toni che gli sono propri - e che (ri)conosciamo - l'attore-regista-sceneggiatore siciliano va - si accontenta evidentemente di andare - sul sicuro ma sbaglia un po' tutto: tempi, battute, dialoghi, senso dell'opera, visione d'insieme, disvelamento dei contenuti, confezionatura, persino nell'adoperare la rossofuoco Miriam Leone, (dis)persa e costretta in mosse e pose come in un fotoromanzo qualunque.
Leggerezza e "semplicità", questa volta, si rivelano armi spuntate, corredo irritante, soprattutto se si tramutano in uno sciocchezzaio - tra gag del cieco e dello zoppo, siparietti di quart'ordine che manco negli sceneggiati di cinquant'anni fa, facili ammiccamenti, incespicamenti ed equivoci lessicali -; armi semmai organiche a uno sguardo in grado solo di autogiustificarsi e autoassolversi.
Per la piattezza generale, per la grossolana gestione dei singoli frammenti (il nonno con la statua del duce nell'armadio, la moglie sconsolata, il "lieutenant" sensibile, l'aldiqua a stelle e strisce, il ragazzino con la fissa per gli asini che volano per giustificare la locandina simpatica: materiale di risulta, estemporaneo, dimenticabile, non amalgamato), per la patinatura agiografica insensata e gli estetismi cartolineschi che conferiscono un'aria (solo) fasulla e fattura da recita scolastica, per le musichette - prevedibilmente non prive di suoni tipici siculi - sempre tese a sottolineare l'ovvio e a forzare i toni.
Per l'idea di cinema, che non c'è.
Rimane giusto il finale, troppo tardi e troppo poco: educativo-divulgativo come unico valore, racchiuso in didascalie - che ci ricordano la rinascita della mafia (per mezzo della DC), che fa nomi pesanti (da Lucky Luciano a Vito Ciancimino a Michele Sindona) -, in una scenetta strappa-consensi (Mussolini appeso a testa in giù) e in un'inquadratura simbolica (Pif-Leone s'una panchina a osservare l'immobilità delle autorità) che non legittimano certo un film così scadente.
Pfui.

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