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Fino alla fine del mondo

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Fino alla fine del mondo

di Aquilant
8 stelle

Vivere la vita allo scopo di rimirare sé stessi immersi in una sorta di mondo incantato in grado di ricondurci alla nostra prima fanciullezza. Poter ammirare i propri sogni notturni durante l’arco completo della giornata per poi addormentarsi allo scopo di produrre nuovi sogni da contemplare il mattino dopo, nuovamente annegati nelle proprie fantasie notturne FINO ALLA FINE DEL MONDO.
Delirante prodotto dell’ingegno wendersiano che celebra l’appagamento dell’utopistica aspirazione umana di oltrepassare la soglia dell’inconoscibile tramite una scorciatoia virtuale in grado di decodificare le proprie incursioni notturne nell’iperuranico regno dell’inconscio grazie ad una tecnologia sempre più avanzata ed insensibile a collaterali sconvolgimenti della psiche che permette di tradurre le onde cerebrali in immagini biochimiche, captando i segnali del proprio cervello e trasformandoli in immagini sullo schermo. Si crea in tal modo un nuovo universo da ripercorrere a ragion veduta negli itinerari onirici notturni non più protetti da invalicabili barriere che precludono la strada all’insaziabile voluttà cognitiva dell’uomo, libero finalmente di perdersi nel labirinto dell’anima in un completo annullamento di tutto il suo io pensante, in una sorta di autocompiacimento derivante dal vivere una vita riflessa.
L’occhio spazia smarrito ed incantato tra intrecci informi di onde cerebrali trasformati in sinfonie di colori e forme; l’animo umano inneggia a sé stesso ed all’ingannevole Dio collocato al suo interno, ma sottilmente malevolo e con ipercinetica esasperazione un terribile nemico sta già producendo i primi guasti: la tendenza all’assuefazione al sogno.-
“Sono una bambina felice ma poi cado. Perché cado continuamente? Non mi lasciate sola. Perché mi lasciate tanto sola? La caduta…il tempo…la solitudine…la paura…..” balbetta a sé stessa Claire, la splendida protagonista in preda ad un evidente regresso ai tempi della sua infanzia, totalmente straniata dalla realtà circostante, asservita in toto ad un autoreferenziale fabbisogno di batterie fresche per il suo videoriproduttore onirico. Inscindibile appare il legame fra la propria individualità eterodiretta e l’avvolgente potere trainante delle compulsive fantasie notturne, e la strada che conduce all’insania è già stata imboccata a causa dell’overdose da immagini. Queste delicatissime tematiche sono proposte da un Wenders in stato di grazia nella sua pregnante opera ricca di suggestioni, simbolismi, e valenze immaginifiche che qualche critico ha impropriamente definito ambiziosa e fallimentare. Cinema torrenzialmente visionario inteso a frastornare lo spettatore, concepito come contaminazione di molteplici generi cinematografici: melodramma, fantascienza, thriller, noir, commedia, dramma, mortalmente ferito dall’impietoso processo di riduzione che da un primo montaggio di nove ore filate lo ha portato prima alla versione di cinque ore presentata nel 1993 al festival EuropaCinema di Viareggio ed infine all’oltraggio perpetrato dai distributori italiani che l’hanno ridotto a poco più di due ore e mezzo.
Cinema dotato di un avvolgente fascino ipnotico indotto dalle stranianti musiche di sottofondo ad opera di Lou Reed, Peter Gabriel, gli U2, David Byrne ed altri, anche se nella prima parte, quella dedicata al viaggio, traspare visibilmente un carattere di frammentarietà, un procedere troppo concitato della narrazione, un pò sfuggita di mano di mano ad una distratta macchina da presa che nell’appassionato fervore della sua condizione di istanza narrante lascia alquanto liberi i personaggi di imbastire a ritmo tambureggiante situazioni che al contrario richiederebbero il loro tempo per essere assimilate nei modi dovuti.
Inconveniente di poco conto tuttavia, rispetto alla mole complessiva dell’opera, presumibilmente addebitabile alla robusta sforbiciata di cui abbiamo accennato, che contribuisce a rendere l’andamento narrativo di difficile assimilazione, specie a causa dei prolungati procedimenti ellittici che finiscono alla lunga per disorientare lo spettatore, non avvezzo ad un continuo girare in tondo dei protagonisti e ad un destrutturante gioco virtuosistico privo di pause e di momenti di approfondimento psicologico.
Nella seconda parte emerge alla grande il talento visionario di Wenders:la vicenda si ammanta di una solennità messianica da atmosfera post- apocalittica ed assume una connotazione epica ben precisa, pregna di simbolismi vari, altamente totalizzante nella sua dimensione onirica; il ritmo si distende assumendo una cadenza meno concitata, l’atmosfera di suspence si dissolve a favore di un intenso clima di riflessione interiore con relativa dilatazione dei tempi filmici e la materia si volge finalmente a dispiegare la sua dislocante forza d’urto al servizio di una storia totalizzante dall’ampio respiro nella sua dimensione di dramma della disillusione dell’esistenza.
Wenders è intento a sottolineare di continuo il pericolo costituito da una eccessiva diffusione incontrollata delle immagini con relativa perdita della loro sacralità, evocando in suo aiuto il potere disintossicante della parola scritta in una ennesima dimostrazione della difficoltà di comunicazione con la realtà. Ma così facendo è inevitabile il ritorno al punto di partenza, laddove in “Alice nelle città” era stato posto l’accento sulla frattura tra l’io e l’ambiente circostante a causa della sfiducia del potere comunicativo della parola scritta che non appena messa sulla carta perde tutto il suo significato e con esso la capacità di rendere il linguaggio del reale. Corsi e ricorsi che in definitiva tendono alla riconferma del suo genio altalenante e nulla tolgono alla potenza espressiva di quest’opera che un famoso critico ha definito come “un gran contenitore di temi e ossessioni dell'universo wendersiano."











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