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La ragazza senza nome

Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film

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La recensione su La ragazza senza nome

di Kurtisonic
7 stelle

Anche quando piacciono di meno, il loro stile riconoscibile riesce a toccare le corde dello spettatore, a fargli guardare la realtà che lo circonda. Il nuovo film dei due registi belgi sa cogliere l'attualità più stringente, con quel rigore e quella coerenza che continua a fare proselitismi tra pubblico e autori.

Adèle Haenel

La ragazza senza nome (2016): Adèle Haenel

Possiamo ancora individuare nel percorso artistico dei fratelli Dardenne le caratteristiche che li hanno eretti a capofila della cinematografia europea ( ripresa  in varie versioni anche in diverse parti del mondo) dell'autorialità più marcata, di quello sguardo neorealista che dal fine millennio precedente ha connotato fino ad oggi le produzioni più radicali nel segno dell'indipendenza creativa? Il loro modo di fare cinema è ancora in grado di colpire puntando lo sguardo sui temi scomodi che la società vorrebbe invece aggirare? La ragazza senza nome, il loro ultimo film, non ha ottenuto quel consenso incondizionato che il parterre del festival di Cannes di solito non gli fa mancare, forse un segno dei tempi per cineasti che inevitabilmente cominciano ad essere segnati da un'epoca supportata da un'ideologia comunitaria sempre più messa in discussione o forse vittime di modalità rappresentative e linguistiche che negli anni si sono un poco affievolite, al punto che sembrano fagocitati da un iperreale che contrassegna i toni sempre più alti e sempre più forti  della postmodernità. Eppure non siamo di fronte ad un film inutile, già visto. In La ragazza senza nome i due registi belgi operano alcune scelte narrative di non poco conto riuscendo ancora una volta a lasciare lo spettatore alle prese con una serie di domande che il film non solo non risolve ma che il climax del racconto fa emergere come fosse non solo un intuibile specchio della società ma che mostra una fitta serie di implicazioni quotidiane a cui le persone cercano di sottrarsi. Il vecchio stile del linguaggio visivo dei Dardenne si piega in favore di un racconto più articolato, quasi volesse tendere ad un noir interiore  senza usare nulla degli elementi costitutivi del genere, il soggetto che rappresenta da sempre la centralità dei loro film viene quasi del tutto celato. Appare solo attraverso uno schermo, prima di una telecamera di sorveglianza poi di un telefono cellulare, come se ciò che viene mostrato fosse sostenibile al nostro sguardo solo grazie alla mediazione di un’ immagine riprodotta.  Questo mi sembra il dato forte del film, la capacita o incapacità di percezione della realtà se non attraverso qualcos'altro e non solo dall'esperienza diretta. Ne sortisce una forma di verità incontrovertibile capace di mettere a nudo le convinzioni e i comportamenti di Jenny, una giovane dottoressa che non apre la porta del suo ambulatorio una sera in cui ben oltre l'orario di ricevimento dei pazienti riceve una chiamata. All'indomani verrà ritrovato il corpo senza vita e senza nome di una giovane di origini africane che aveva suonato a quella porta. Il film si sviluppa lungo la presa in carico di un senso di colpa che avvinghia Jenny facendola sentire in obbligo di dare un'identità almeno nella morte della ragazza rinvenuta. Le ricerche che compie in quella direzione fanno di lei stessa una persona senza nome, senza un ruolo pubblicamente riconosciuto che la protegga. E forse questo scomodo abbandono di ciò che usiamo come la nostra migliore difesa sociale rappresenta la faccia opposta di quella indifferenza che ci fa ignorare l'altro, il diverso, la persona che comunque è portatrice di una storia. I Dardenne mettono così sullo stesso piano Jenny e la ragazza senza esaltare o condannare i presunti valori di una società, ma semplicemente avvicinando due esseri umani disarmati da ogni pregiudizio e diffidenza. Per una volta viene a mancare la famigerata estetica del pedinamento, cioè quel modo di inquadrare il protagonista dalle sue spalle che viene riconosciuta mondialmente ai Dardenne, la telecamera che assoggetta a sè l'ambiente per ridefinirlo diventa invece lo sguardo di Jenny che esplora il vuoto circostante della realtà quando esce all'esterno del suo ambito difensivo rappresentato               dall’ ambulatorio e dal suo ruolo sociale. Nell'incedere della sua personale indagine si accumulano fatti ed elementi descrittivi di una collettività allo sbando, senza riferimenti etici, insensibilmente vuota. Il fuori campo diventa sempre più percettibilmente pesante, Jenny diventa progressivamente testimone di un mondo invisibile solo per chi non lo vuole vedere, e i registi attribuiscono a lei la forza dell'azione individuale come motore primario di una consapevolezza in grado di non porsi al centro del mondo in modo narcisistico e auto consolatorio. La giovane dottoressa diventa artefice silenziosa di un cambiamento che auspicheremmo tutti come se non possibile almeno un pò più frequente. Il semplice dato della normalità del comportamento di Jenny che non viene in nessun modo spettacolarizzato o beatificato come un santino della società civile ha prodotto probabilmente intorno al film una cortina di leggero fastidio che ha indotto critica e stampa a sottostimare questo lavoro, o forse perché risultato meno ruvido e approfondito almeno nel perseguire fino in fondo le sottotrame  Eppure il film è efficacemente “dardenniano” capace di mettere in primo piano la moralità dell’individuo che non si giustifica con una posizione sociale acquisita, ed uno sguardo verso nuovi e vecchi conflitti in grado di contaminare il comportamento e i pensieri di chiunque..

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