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Delicatessen

Regia di Jean-Pierre Jeunet, Marc Caro vedi scheda film

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La recensione su Delicatessen

di OGM
8 stelle

Il cinema come meccanismo creatore e narrante: sembra questa la visione di Jean-Pierre Jeunet, che confeziona ogni suo film come una realtà inscatolata che, nello spazio compresso di un sogno, costringe varie tipologie umane a confrontarsi con situazioni paradossali. I personaggi, che si dibattono entro la prospettiva forzata di un quadro surrealista, vivono vicende in cui la follia è l’esasperazione simbolica di una delle tante esistenti forme di infelicità.  In questo film la condizione di contorno è una cupa sensazione di assedio, forse determinata dalla miseria e dall’oppressione derivanti da un’invasione nemica. Alcuni timidi riferimenti fanno pensare alla Francia occupata dai nazisti, ma, d’altra parte, l’insistente presenza della televisione sembra rimandare, sia pur alla lontana, ad atmosfere orwelliane, in cui i mass media sono l’unico possibile contatto con l’esterno. L’ambientazione – un palazzo cadente e sovraffollato - è la tipica gabbia a trabocchetti in cui l’umanità vive come una colonia di topi, sempre esposta al pericolo ed alla legge del più forte. La figura del macellaio, il cui negozio è situato al piano terra del caseggiato, riassume tutti i fenomeni psicotici che covano all’ombra della società industriale, e sono le degenerazioni, estreme e clandestine, degli istinti primordiali: oltre ad essere un padre padrone, un marito fedifrago, un tirannico sfruttatore, egli è un cannibale ed un serial killer. Una situazione bellica imprecisata gli offre l’alibi per perpetrare i suoi delitti, che trovano l’ideale pretesto nello stato di necessità (la fame e l’esigenza di una leadership forte per affrontare le minacce esterne). Sul fronte opposto ci sono sua figlia Julie, un’artista inoffensiva e molto miope, e il suo giovane spasimante Louison, il nuovo ragazzo di bottega (e prossima vittima designata del padre),  un ex clown rimasto senza lavoro. La coppia sembra la versione circense dei fidanzatini di Peynet, investita di un romanticismo che è, anzitutto, una poetica comicità, in cui la goffaggine di lei è compensata dalla pittoresca ingegnosità di lui. Il loro duetto musicale, interpretato da un violoncello e da una sega suonata con un archetto, è l’arte di arrangiarsi tradotta in melodia, è l’inno dell’e vissero felici e contenti che, nel finale, conclude, soavemente, una favola in cui l’orco è stato sconfitto. Sono loro i pacifici paladini della libertà, che difendono i valori nelle private sfere del sentimento,  sullo sfondo di un conflitto in cui il potere dittatoriale è combattuto dalla resistenza aggressiva e organizzata dei Trogloditi, veri uomini-ratti che vivono nelle fogne e si cibano di granaglie. Se questi sono i “buoni” armati,  Julie e Louison sono i “buoni” nonviolenti, incuranti delle grandi vicende storiche, capaci di dipingere fiori e piangere per una scimmietta defunta anche mentre fuori infuria la tempesta della guerra. In Delicatessen, l’elemento più grottesco è proprio la sopravvivenza dell’innocenza, della purezza d’animo, dell’amore disinteressato - e anche un po’ "stupido" - in un contesto bestiale, governato dall’assoluto principio del mors tua, vita mea.

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