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Interruption

Regia di Yorgos Zois vedi scheda film

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La recensione su Interruption

di OGM
8 stelle

L’epica è morta. Non esistono più eroi, né assassini. I personaggi maledetti sono fossili di un oscurantismo etico che fa rivoltare le coscienze. E le divinità un tempo deputate a giudicare, condannare o salvare sono cadute in un sonno profondo. Hanno lasciato che il colpevole fuggisse, verso una realtà nuova, priva di struttura etica, dove è possibile nascondersi, confondersi con il popolo, essere parte della gente. Il teatro greco ha perso la sua autorevolezza. Le grandi opere della classicità non sono più riconosciute come maestre di vita. Hanno smesso di insegnare, ed il loro palcoscenico, da cattedra che era, si è ridotto a luogo di incontro,  si è trasformato in uno spazio aperto al pubblico in cui ci si confronta, si sperimenta, si dibatte. I ruoli tradizionali si dissolvono, sotto la spinta della comunicazione orizzontale che è divenuta un’esigenza primaria: l’espressione ha soppiantato la creazione, l’opinione ha finito per prevalere sull’arte. Tocca agli spettatori prendere il posto di attori stanchi, dediti a obsolete litanie su un mondo passionale ed arcaico che non esiste più.  Accade, così, che lo spettacolo imploda. Il coro dell’Orestea si abbandona ai piaceri della vita e non è più in condizione di reggere la scena. Non ha più voce, né la forza di imporsi su una platea che è affezionata alle proprie idee, anche se queste magari non sono poi tanto chiare, né troppo sofisticate. I dilemmi si sono dileguati, sopraffatti dalla comune pratica di proporre soluzioni a casaccio, ancor prima di aver sviscerato il problema. Oreste uccide la madre Clitennestra, per vendicare l’omicidio del padre Agamennone. Queste cose, ormai, appartengono al passato. Nessuno le capisce più. Anziché immedesimarci nei soggetti, riteniamo più corretto contestualizzare le loro azioni: le ragioni non devono nascere dalla pancia, meglio cercarle nelle condizioni circostanti, nelle premesse esistenziali.  Nei meandri della società, nei recessi della psiche. Il film di Yorgos Zois squarcia il ventre sacro della tragedia, conservandone la forma esteriore, ma solo per riempirla con le frattaglie inconcludenti del pluralismo da talk show, della spontaneità da reality.  La cornice dello show non è più il microcosmo esclusivo ed appartato definito dal copione, è solo  il contorno momentaneo di un’inquadratura, pronta a spostarsi, ad allargarsi, ad invertire il dentro e il fuori, scambiare l’osservatore con l’osservato.  Lo sguardo è indotto a transitare attraverso quella che sembra solo una stazione, affollata di viaggiatori in attesa di partire, che stanno seduti oppure si muovono per vincere la noia, per rifocillarsi, per sgranchirsi le gambe, per cercare di fare qualcosa di diverso, o provare un’emozione nuova, da improvvisi protagonisti. Quegli inquieti passeggeri siamo noi, uomini moderni.   Noi che ci siamo volontariamente spogliati del mito, e che adesso ci chiediamo cosa sia rimasto, nella nostra specie, di autentico e primitivo. Forse solo la nostra inerme fisicità. E l’illusione di una libertà morale che  a torto consideriamo come la decorosa veste della civiltà. Intanto ci ritroviamo tutti schiavi, in mano a una regia dilettantesca che ci guida senza portarci da nessuna parte, Individui tutti diversi l’uno dall’altro, eppure ugualmente sottomessi ad un potere provvisorio, tanto arbitrario quanto fragile, che non ha più nulla di divino.  

 

scena

Interruption (2015): scena

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