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The Bad Batch

Regia di Ana Lily Amirpour vedi scheda film

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La recensione su The Bad Batch

di supadany
6 stelle

Venezia 73 – Concorso ufficiale.

The bad batch non è un film che passa inosservato lasciando inerti, nel bene o nel male smuove, con ogni probabilità senza trasmettere la sensazione che alle spalle la bussola indichi sempre il verso giusto.

Fresca dei riconoscimenti e degli attestati di stima conseguiti con A girl walks home alone at night, Ana Lily Amirpour lo riempie di suggestioni, creando un immaginario ricolmo di elementi, ma il dosaggio e l’acume non trovano continuità e riverberi tali da elevarlo a titolo da conservare nella memoria.

In un futuro non ben precisato, quando un essere umano è considerato difettoso, o più semplicemente indesiderato, viene espulso dai pochi centri governativi e messo alla mercé del mondo fuori.

Destino che tocca ad Arlen (Suki Waterhouse) che ben presto si trova a dover fare i conti con una comunità di cannibali e con il corpulento Joe (Jason Momoa).

Anche se mutilata, riuscirà a fuggire e grazie all’aiuto di un viandante di nome Peter (Jim Carrey) a giungere a Comfort, dove le cose funzionano in maniera differente e un leader di nome Rockwell (Keanu Reeves) instilla una seconda possibilità.

 

Suki Waterhouse, Jason Momoa

The Bad Batch (2016): Suki Waterhouse, Jason Momoa

 

Tra tutto (la civiltà) e niente (il deserto e i rifiuti umani), nel mezzo rimane la sopravvivenza da agguantare spendendo le ultime energie rimaste.

Ambientazione western dei miserabili e dei reietti, dove niente si regala a cuor leggero e c’è chi ha nella carne umana la sua pietanza d’ordinanza, con richiami, diretti o indiretti a ricordare tanti film già visti, accordati tra loro senza riuscire però a generare un insieme che possa aderire al ristretto gruppo dei titoli capaci di inventare realmente qualcosa (il riprendere e trasformare è ormai quasi inevitabile).

O meglio, di elementi sparsi, funzionali in tal senso, ce ne sono alcuni, ma alla fine l’insieme assomiglia più che altro a un bastimento nel quale è stato incamerato all’interno un po’ di tutto (inutile dire che la protagonista mutilata di un braccio, oltre che a una gamba, fa in qualche modo pensare alla Furiosa di Mad Max: Fury road) finendo con il risultare meno originale di quanto potesse essere.

Non per questo rimane però confinato nell’ordinario; rischia il ridicolo, soprattutto nei pressi del finale, ma ha anche delle intuizioni evocando uno scenario post apocalittico, lasciando ampio campo ai silenzi, per poi esplodere con una sorta di monologo che vorrebbe essere di gran impatto, ma il tragitto, fin troppo allungato (esondando da più parti), non è detto che lo aiuti.

Tra escursioni in stile videoclip e considerazioni che, in modi anche distanti, comportano un sub movimento del pensiero (che non è detto arrivi), star decadenti pronte all’uopo – Jim Carrey è riconoscibile solo dai tratti essenziali mentre Keanu Reeves tra costumi e trucco sembra il Pablo Escobar di un futuro sgomento – The bad batch rischia seriamente di passare per un minestrone saporito solo in certe cucchiaiate.  

Alla fine, sembra un’occasione non colta fino in fondo, un mix tra coraggio e malizia cui Sam Mendes ha deciso di assegnare a Venezia il Premio speciale della giuria.

Sì, a suo modo, con le sue imperfezioni e le sue derive, rimane un’opera audace, una visione fuori dal coro, forse fin troppo e non certo per i suoi cannibali culturisti (che altri avrebbero sfruttato anche di più) quanto per una visione a intermittenza che adottando vari stili non ne trova uno proprio.

Promiscuo.

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