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Ossessione

Regia di Luchino Visconti vedi scheda film

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La recensione su Ossessione

di spopola
8 stelle

L'ossessione della passione...
L'ossessione della colpa...
L'ossessione del rimorso.
Tutto è ossessione in questa pellicola così anomala che rappresentò il folgorante esordio di Visconti.
Il delitto non paga... i peccati si scontano... i nodi - tutti - vengono comunque al pettine, non c'è scampo o remissione, non è possibile farla franca, nemmeno con la nostra coscienza. Il postino tornerà comunque a suonare, sarà di nuovo alla porta per consegnare un plico diverso, ma che comunque chiederà ugulmente di saldare il conto rimasto aperto.
Una tematica così forte questa, che coinvolge gran parte dell'opera letteraria di Cain, non solo il romanzo dal quale il regista trasse ispirazione per quella sciabolata che squarciò all'improvviso il piatto universo della cinematografia italiana del perdiodo, così omologato e consolatorio. Un romanzo, quello di Cain che è all'origine di opere diversissime fra loro, ma comunque sempre interessanti e degne di attenzione (oltre a Ossessione, i due Postini americani - quello più edulcorato e meno realistico, ma ugualmente travolgente di Tay Garnet del 1946 con Garfield e Lana Turner e quello maggiormente aderente al testo di partenza e sessualmente più esplicito di Bob Rafelso con Nicholson e la Lange e la torbida scena della "scopata" sul tavolo - ma anche la semisconosciuta in italia versione francese del regista Chenal dal significativo titolo de: Le dernier tournant). In Ossessione è chiaramente avvertibile la lezione stilistica di Renoir (non a caso Visconti ne era statro attento aiuto-regista nella realizzazione di alcune opere fondamentali) nel disegnare gli ambienti che fanno da sfondo alla vicenda e le forti contrapposizioni psicologiche dei protagonisti. Eccezionale anche la tavolozza cromatica della fotografia piena di contrasti e di ombre, densa di chiaroscuri e di rimandi, in quello splendido bianco e nero che caratterizza la pellicola.
Lo stile del regista è poi così maturo, per un'opera prima che è già capolavoro assoluto, denso di premonizioni e simbolismi (uno fra tutti: l'apparizione della donna con il segolo e la faccia in ombra - chiara identificazione dell'angelo della morte che aleggia sulla casa - dopo la battuta di riferimento pronunicata da uno sconfortato Massimo Girotti. E che indimenticabile ritratto di dark lady sottoproletaria, quello disegnato da Clara Calamai, nel lento trascorrere uniforme delle giornate in quella terra senza speranza rappresentata dalla bassa Padania del dopoguerra, restituitaci con analoga delicatezza di tocco, forse solo dall'Antonioni de IL GRIDO, in un contesto analogamente degradato e - sia pur per motivi e ragioni diverse - ugualmente drammatico e senza speranza con la tragica conclusione che rappresenta l'epilogo dei due "percorsi" esistenziali.

Su Luchino Visconti

Che Ossessione sia un grande film a tutti gli effetti, è ormai acclarato; che si tratti  di uno dei più folgoranti esordi che la storia del cinema italiano annovera nei suoi annali, è un’altra certezza assoluta e imprescindibile: difficilmente un'opera prima  è già  un capolavoro assoluto come in questo caso (per ritrovare un debutto altrettanto significativo dovremo aspettare Bellocchio e il suo I pugni in tasca). Se si contestualizza  poi il film rapportandolo agli anni, ai tempi e ai modi in cui si esprimeva il cinema in quel periodo e soprattutto se lo si raffronta con tutto quello che qui da noi era stato fatto fino a quel momento, l’opera acquisisce una valenza storica di  una “rottura” quasi provocatoria a partire proprio dall’audacia del soggetto, si carica di un vigore ancor più marcato per l’attenzione prioritaria che riserva all’aspetto sociale dell’ambientazione, e per il tocco veritiero che dà ai connotati recitativi degli interpreti, poichè rappresenta proprio in virtù di questi elementi, il momento in cui si definisce una nuova forma di linguaggio (che aprirà poi la strada alla straordinaria stagione neorealista, della quale Ossessione è capostipite indiscusso).
In Ossessione è chiaramente avvertibile la lezione stilistica di Renoir (non a caso Visconti ne era stato attento aiuto-regista nella realizzazione di alcune sue opere fondamentali) e quella esperienza formativa sarà determinante per definire il suo stile, fornendogliela giusta “chiave” per disegnare gli ambienti degradati che fanno da sfondo alla vicenda e per mettere a fuoco i forti contrasti passionali e psicologici dei protagonisti. La rottura dello schema rispetto alla tradizione calligrafica imposta dallo stile fascista è così forte, da essere già di per sé un elemento disturbante di “scandalosa devianza” (il boicottaggio perpetrato dal regime verso questo titolo, si connota proprio in questa direzione: non solo per il tema trattato, quindi, ma anche e soprattutto per la visione generale delle scelte, così  realisticamente veritiere, che riproducono con insolito pessimismo una realtà desolata, squallida e senza speranza, da risultare inaccettabili per una posizione edulcorata come quella privilegiata dal regime).
Personalmente ho già espresso qui qualche tempo fa la mia  opinione positiva su questo film e non avrei dunque, per quanto mi riguarda, molte altre cose da aggiungere. Per far comprendere meglio però proprio gli eccezionali elementi di novità che l’opera racchiude in se, mi è sembrato importante riproporre questa impressione “a caldo”  (ricostruita qualche anno dopo sull’onda nostalgica dei ricordi) che racconta di una visione quasi clandestina a Roma in una sala semi-deserta, in una giornata per altro particolare e importante per i destini della nostra storia: l’otto settembre 1943. Si tratta quindi di una testimonianza quasi in diretta espressa da un giovane ragazzo di 17 anni che poi avrebbe a sua volta iniziato, pochissimo tempo dopo, un suo personale, straordinario, sofferto viaggio dentro e attraverso il cinema:
(…) il pomeriggio dell’otto settembre uscii di casa verso le quattro. Al cinema Capitol di Via XX Settembre, proiettavano nella semiclandestinità dell’estate deserta un film del quale si era parlato molto e in odore di scandalo. Era Ossessione di Luchino Visconti. Mi infilai nel cinema quasi vuoto e mi sembrò di assistere ad un film mai visto, diverso da ogni altro. Era un film lento, lungo, ma di una novità sconcertante. Raccontava di una umanità relitta e oppressa dalla colpa, i visi erano visi autentici, le città le case, le strade erano indagate con occhi impietosi, lo stesso Massimo Girotti aveva una sua  verità sbandata e proletaria che non ricordava in nulla le bellissime fattezze degli eroi amorosi che da un paio di anni, avendo il cinema accantonato ogni tema bellico, era stato costretto a interpretare. Clara Calamai non era più la maliarda sinuosa che in molti film aveva stimolato fantasie notturne allora severamente proibite, ma una povera donna sciatta e poco lavata, sposata per interesse a un uomo tozzo e volgare, travolta da montagne di piatti sporchi, che dopo una giornata di fatica si mangia una scodella di minestra  con l’umiltà di un cane stanco che lecca lentamente gli avanzi nella ciotola.
Il film mi piacque moltissimo e in qualche modo mi turbò, anche. Quell’Italia che in seguito avrei conosciuto così bene non l’avevo mai vista. Quando uscii dal cinema erano circa le otto ma c’era ancora molta luce e il cielo era grigio e plumbeo cime quando il caldo è eccessivo e nell’aria immota si preannuncia un temporale d’estate.
Arrivai sino a Piazza Indipendenza dove vivi molta gente riunita intorno al chiosco di un bar. E fu lì che udii l’odiosa voce di Pietro Badoglio scandire in accento piemontese le ambigue parole che annunciavano la nostra resa incondizionata. Mi riavviai verso casa e mi ritornò in mente la triste profezia di Bucarest: e quella sera si decise il destino dei miei futuri dieci anni. (Valerio Zurlini, Pagine di un diario veneziano (gli anni delle immagini perdute) – Mattioli 1885 Editore)

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